UN FRIULANO A
MAUTHAUSEN
(Diego Lavaroni)
In questa biografia
scorre la vita di Danilo ma anche la vita di una comunità, quella
manzanese. Si vede sullo sfondo un mondo antico che, una volta
finita la guerra, si dissolve. Infatti, si fa riferimento a
persone d’altri tempi, come la gran dama della filanda, svanita
nel limbo di un mondo in dissoluzione. Alle filande si
sostituiscono le fabbriche di sedie. È la descrizione di una
comunità povera, tanto povera che il bisnonno fu affidato, sui
gradini dell’abbazia di Rosazzo, a mani caritatevoli che potessero
prendersi cura di lui. È un periodo durante il quale i sottani, i
poveri diavoli, fanno fatica a sbarcare il lunario.
Il padre Antonio fu emigrante in Germania, Austria e
Africa. Suonatore di fisarmonica, suonatore di musiche popolari
nelle feste di paese. Il bambino Danilo è estasiato dai concerti
del padre e dice che ha “sempre negli occhi la sua espressione
seria quando, durante le sagre, suonava con trasporto le canzoni
più in voga dell’epoca…. (p. 12)
La mamma Elena però lo iniziava all’avventura e al
lavoro (raccogliere erba per i conigli, far legna); la campagna
era un universo sterminato pieno di vita e di mistero…. (ibidem)
A sei anni però finisce quell’epoca celestiale
e inizia la scuola. I primi tre anni a Oleis, la quarta e la
quinta a Manzano.
Quando andava a scuola a Manzano i contadini erano nei campi e non
degnavano di uno sguardo quello studentello. I bagni nel Natisone.
Pattinare e pescare a mani nude. Ritornare sulla bicicletta del
papà, dalla fabbrica di sedie. Sono emozioni forti, ancora vive.
Con la fine della quinta finisce anche il tempo dei
giochi ed il piccolo Danilo comincia a riparare le gomme bucate
delle biciclette. Quando il padre torna dall’Africa fa il
venditore ambulante di croccanti e amaretti nelle feste e nelle
osterie e Danilo lo aiuta. Poi, il padre fa il fornaciaio e Danilo
diventa apprendista calzolaio. Il cjaliar, dice Danilo “era
un mestiere importante… avere un paio di scarpe buone era
indispensabile come oggi avere un’automobile e il lavoro non
mancava”. … “Erano pochi infatti quelli che si potevano
permettere delle scarpe nuove e per lo più la povera gente si
doveva arrangiare facendole riparare continuamente”. (p. 24)
Nel ’41 lavora nella bottega rinomata di Tavasani a Cormòns ed è
qui che appare la vestale bionda sposata ad un padrone di filande.
(p. 28)
Nel ’42 il padre Antonio lavorava in Germania e aveva
modo di osservare treni pieni di prigionieri che partivano per i
campi di lavoro per località imprecisate. Papà Antonio non ha
simpatia per Mussolini e questo atteggiamento rischia di
procurargli dei guai.
Qui, ha inizio la vicenda che porterà Danilo a
Mauthausen. Già prima dell’otto settembre Danilo ‘aveva fatto
amicizia con dei partigiani che si stavano organizzando nei paesi
del manzanese’. E uno di questi, Riccardo Caròn andò dagli
Urbancigh e parlò col padre e con Danilo.
Nel gennaio del ’44 richiamo per l’arruolamento, sei
giorni di caserma, senza direttive, esercito allo sbando,
diserzione. Reclutamento a Poggiobello (villa de Marchi) nel
battaglione Manin rinominato “Verrucchi”.
Danilo diventa la staffetta Jim e si occupa del trasporto di
vivande, vestiti, ecc. per le brigate operanti tra il Collio e le
Valli del Natisone, “ma soprattutto di delicati e vitali
messaggi tra le varie postazioni partigiane”. (p. 30)
Qui, naturalmente, cominciano i problemi di tutte le staffette.
Un’epopea che solo apparentemente è meno rischiosa di quella dei
combattenti. Prima di tutto le staffette devono dissimulare la
loro presenza. Sembrare soggetti inoffensivi e assolutamente
estranei alla resistenza. Usare documenti plausibili, avere sangue
freddo e ottima capacità di affrontare situazioni rischiose,
disarmati ed anche di difficile e immediata soluzione. Non bastano
il fegato, l’abnegazione, la volontà di superare gli ostacoli se
non si è in grado di mandar giù un foglio di quaderno piuttosto
voluminoso. (p. 31)
Una ragazza fatta scendere dalla corriera da un
commando tedesco indica ai soldati un partigiano. Danilo ritroverà
poi quella ragazza davanti al plotone d’esecuzione. In quel
frangente don Erino D’Agostini (Dalla montagna a Dachau)
“Unio” di cui Danilo ammirava la forza morale, la sostenne nel
momento fatale.
Assistere alle fucilazioni di traditori era una
doverosa incombenza, ma una tragica presa di coscienza. Anche
quelle morti suscitavano una profonda commozione. Ma, era in gioco
la vita e dunque quello scontro fratricida era inevitabile. “Chi
non era con noi era contro di noi! Le rappresaglie tedesche erano
di una ferocia disumana e non lasciavano nel nostro cuore molto
spazio per la pietà verso chi ci aveva tradito!” (pp.
34-35)
Anche papà Antonio meriterebbe un riconoscimento dalla
comunità di Oleis che egli aiutò a salvare da una probabile
rappresaglia dopo uno scontro tra partigiani e tedeschi. “Papà
Toni riuscì a convincere il tedesco che si trattava di un
passaggio occasionale dei partigiani e il paese fu salvo”.
Qualche tempo dopo, nell’agosto del ’44, avvenne la grande
battaglia di Nimis, nella quale Danilo prese parte, anche se non
si trovò coinvolto nel cuore dei combattimenti. A quella battaglia
seguirono parecchie rappresaglie e durante un rastrellamento il
padre venne fermato e condotto alla sede del comando tedesco, a
Buttrio. Al suo posto doveva esserci Danilo. Si trattava
evidentemente del tentativo ricattatorio di colpire l’uno per
l’altro o di costringere Danilo a consegnarsi.
Danilo decide di
consegnarsi e, da quel momento la sua vita segue un corso nuovo e
terribile. Il padre viene rilasciato convinto che anche Danilo,
grazie al lasciapassare salvifico, sarebbe stato liberato.
Le procedure sono scarne, schematiche. “Sei tu
Danilo Urbancig?” Alla risposta affermativa viene condotto
via. Poi, Danilo e gli altri vengono condotti alla caserma dell’VIII
Alpini, a Udine. Per cena dei pezzi di anguilla cruda.
Durante l’interrogatorio viene ammessa la
madre di un partigiano fucilato alle prigioni di Udine.
L’ufficiale, nella più assoluta indifferenza, conferma alla donna
che suo figlio è stato fucilato. Come se avesse letto l’orario di
partenza di un treno. Si, il treno è partito all’alba, senza
alcuna destinazione. Indifferenza, mancanza o rimozione di
emozioni. Io credo che questa immagine, documenti in maniera
straordinaria, l’orrore di quel sistema.
Poi, una speranza ed anzi la
convinzione che sarebbe stato rilasciato. “Pai, vieni a
prendermi!” In realtà la speranza è solo una breve e tremenda
illusione. All’alba, bisogna mettersi in fila per tre e
raggiungere la stazione. Si intonano cori partigiani. Ammasso nei
carri. Poi, la voce del padre. L’abbraccio, una gavetta di
pastasciutta e il saluto. “Non preoccuparti, Danilo vedrai che
torni presto!” Era il 4 febbraio del 1945; dopo 3 giorni
arrivo a Mauthausen. Spoliazione e 10 giorni di quarantena.
Divisa: ago e filo per cucire
il proprio numero: 126912. Punizione per la sottrazione dell’ago
servito a cucire il numero. Alla sottrazione dell’ago segue la
spietatezza esemplare. Sulle cose minime la grandezza della
punizione. Si potrebbe dire che il sistema era assolutamente
inflessibile di fronte alle inezie. Le cose impercettibili
venivano ingigantite, dilatate in maniera straordinaria. Perché
appartenevano ai nazisti. Un ago era più importante di una
persona. Se uno non era ariano, valeva niente. Se uno era zingaro,
o omosessuale, o paziente psichiatrico o disabile, o comunista, o
ebreo, o partigiano, valeva niente. Meno di un ago.
L’amicizia con Guido
Canziani di Firmano si consolidò una volta ritrovatisi a
Mauthausen. Sicuramente, il reciproco sostegno diede a entrambi la
forza di andare avanti. Ma, Guido, con cui Danilo fuggì
dall’ospedale di Udine “non riuscì mai a superare del tutto il
trauma della prigionia”. (p. 66)
Il 5 maggio ’45 la liberazione
a opera degli americani. Il 14 giugno, finalmente a casa. Un anno
in ospedale, a Cividale e un altr’anno di convalescenza. Ritrovare
Guido: “Danilo, cosa ci fai tu qui, in America?” Non tutti
quelli che tornarono dai lager riuscirono a ritrovare anche la
vita. (p. 74) Nel 1954 a 53 anni muore papà Antonio.
Danilo Urbancig è un uomo
semplice che mi ha fatto pensare a come deve essere stato
dolorosamente complesso per un uomo che guardava alla vita con
semplicità, il marchingegno travolgente e spietato che l’avrebbe
imprigionato. Imprigionato e poi portato nel lager per lavorare
come uno schiavo. Una volta che gli avessero tolto tutte le
energie l’avrebbero liquidato. L’obiettivo era quello. Espropriare
le persone della loro dignità, della loro essenza umana e poi
annientarle.
Danilo osserva e scopre,
sorprendendosi, ma senza smarrirsi, che la macchina diabolica è al
lavoro per impedire agli esseri di vivere.
Miguel de Cervantes
l’autore del Don Chisciotte scrive che il sonno della ragione
genera mostri. Quando la ragione dorme o è state neutralizzata da
suggestioni potenti o da illusionisti formidabili sicuramente
possono emergere le peggiori rappresentazioni degli esseri umani.
Eppure non basta. Non basta il sonno della ragione a spiegare
l’annientamento. Forse, per spiegare l’immane tragedia è
indispensabile far riferimento anche al sonno delle emozioni,
alla neutralizzazione dei sentimenti. L’immagine dell’ufficiale
che comunica alla madre la fucilazione del figlio, con
l’indifferenza che si poteva destinare ad un grano di polvere, è
emblematica.
La testimonianza di chi ha vissuto questa vicenda
drammatica è importante. Sono importanti le testimonianze di chi
ha vissuto, combattuto, sopportato queste vicende disperanti. Sono
importanti non tanto per lasciare aperta una ferita terribile e
spesso insanabile. Sono importanti per contrastare le
mistificazioni, le manipolazioni della storia. Ci sono sempre
stati i negazionisti, coloro che negano la shoah, i massacri,
l’esistenza dei campi di sterminio. Ma, le persone che hanno
vissuto sulla propria pelle vicende come quelle narrate da Danilo
e sono migliaia e migliaia, non si possono negare. Oggi, vanno di
moda i revisionismi storici. Io credo che sia giusto approfondire,
discutere, correggere, ampliare, integrare. Ma, non si possono
mettere sullo stesso piano vittime e carnefici. Non possiamo
mettere sullo stesso piano coloro che sono passati attraverso i
camini e coloro che li hanno massacrati. Non si possono
oltraggiare le vittime del nazifascismo. Anche per questo le
testimonianze, come quella di Danilo Urbancig, sono estremamente
importanti.
MANZANO,
22/4/05 |