nuove dal friuli e dal mondo

Abbazia di Rosazzo, 21 Aprile 2009

I colloqui dell'Abbazia

LA DIMORA DEL NOME
Considerazioni sull’architettura del sacro

Secondo l’architetto Augusto Romano Burelli gli stessi “architetti non riflettono abbastanza sul seguente paradosso: lo spazio sacro è, per il culto cattolico, parte integrante del rito, il rito è indissolubilmente legato alla parola rivelata che non muta, la parola rivelata è parte sostanziale del Divino, quindi lo spazio sacro non può cambiare secondo i capricci dell’architetto; deve esserci qualcosa che non muta.

NE HANNO DISCUSSO:

  • Don Roberto Tagliaferri, Professore all’Università Cattolica di Milano e all’Ist. di S. Giustina, liturgista ed epistemologo

  • Arch.  Davide Raffin, Docente all’Università di Udine

  • Arch. Alessandro Pizzolato, Docente all’Università IUAV di Venezia

  • Arch. Augusto Romano Burelli, Presidente del Corso di Laurea di Architettura all’Università di Udine

  • Moderatore - Prof. Giovanni Frau, Fondazione Abbazia di Rosazzo

     Il centro del problema architettonico-liturgico è proprio questo, cioè il "dilemma tra l’immutabilità del rito e la vaga transitorietà dell’architettura di oggi".
     Gli architetti contemporanei sono ossessionati dalla categoria del "nuovo", eppure l’architettura che ha annientato la tradizione difficilmente potrà contare su una nuova tradizione in cui essere conservata e tramandata. Il tempo postula la durata come la ragion d’essere: le opere dell’architettura sacra la ricercano più delle altre, vincolate come sono al rispetto dei fini e delle verità immutabili della Chiesa. Tramite la durata il tempio protesta contro la morte, cicatrizza le ferite inferte dal dubbio, testimonia la salvezza della vita eterna. Ma al di là dell’affermazione un po’ conservatrice che la ricerca del nuovo annulli la durata, la "breve eternità" dell’edificio sacro è l’allegoria di un’eternità solo apparente.
     L’architettura religiosa degli ultimi trent'anni usa un linguaggio sacralmente inespressivo, che sembra il portato di un secolarismo senza legame alcuno con la trascendenza. Il suo aggiornamento figurativo, concepito dagli architetti nella più grande e solipsistica libertà di cui nessun altro edificio pubblico ha mai goduto, è la maschera di un vuoto teorico e teologico vertiginosamente profondo.

I COLLOQUI DELL’ABBAZIA
Fanno parte de ‘I colloqui dell’Abbazia’ una serie di incontri fortemente voluti e ideati dalla Fondazione Abbazia di Rosazzo con il preciso scopo di trattare argomenti di attualità e interesse generale che abbiano ricadute specifiche nel territorio di competenza. Il programma si inquadra in un progetto più ampio e definito di azioni concrete che hanno come fine la valorizzazione del territorio e il potenziamento delle sue intrinseche peculiarità, con l’impegno sempre maggiore rivolto alle problematiche contingenti e alla proposizione di soluzioni innovative.
 

I «COLLOQUI DELL’ABBAZIA DI ROSAZZO»
HANNO TOCCATO IL DELICATO TEMA DELLA PROGETTAZIONE DELLE NUOVE CHIESE
 
(G
ABRIELLA BUCCO - LA VITA CATTOLICA SABATO 2 MAGGIO 2009)

     L’ARCHITETTURA MODERNA ha smarrito la strada del dialogo con Dio e con l’eternità? Questo la domanda al fondo del dibattito dedicato al tema «Architettura del sacro tra architetti muti e liturgisti ciechi», svoltosi martedì 21 aprile a Rosazzo nell’ambito de «I colloqui dell’Abbazia». Un argomento che è anche il titolo del libro scritto dall’architetto Augusto Romano Burelli con Paola Sonia Gennaro, dove si descrivono tre sue chiese: Santa Lucia in Piovega di Gemona, Kirch Steigfeld a Potsdam e la chiesa di San Pietro al centro di Berlino. Ha fatto gli onori di casa mons. Remo Bigotto, rettore dell’Abbazia, che ha ricordato come ogni anno si costruiscano in Italia circa 35 chiese e come un concorso, bandito dalla Conferenza episcopale italiana per nuove architetture, sia giunto ormai alla sua quarta edizione. Proprio due degli architetti vincitori di questa manifestazione, Alessandro Pizzolato e Davide Raffin, hanno presentato le chiese premiate: quella di Santa Maria della Roccella in Calabria (2003) e il progetto del Sacro Cuore di Gesù per Reggio Emilia. Entrambi hanno collaborato con liturgisti e artisti con tempi rapidi di realizzazione.
     Il prof. Giovanni Frau ha moderato il dibattito tra i due protagonisti dell’incontro, personalità forti e originali: l’architetto Adalberto Burelli, presidente della facoltà di Architettura dell’Università di Udine, e Roberto Tagliaferri liturgista ed epistemologo, docente all’Università cattolica di Milano e all’Istituto Santa Giustina.
     I lavori sono stati aperti da Burelli che ha evidenziato come nel mondo luterano, a differenza di quello cattolico, il canto e la musica guidino il rito e nel presbiterio nulla sia vincolato alle figure officianti, tanto da giustificare la sua progettazione con arredi mobili. Secondo Burelli, nella moderna architettura  cattolica delle chiese, si è invece distrutta la tradizione senza ricrearne una. I progettisti occidentali, ossessionati dalla categoria del nuovo, non organizzano più lo spazio secondo canoni liturgici, ma come «monadi impazzite» declinano l’architettura per esprimere concezioni personali solipsistiche che durano, forse, il tempo di una generazione. Nelle chiese c’è dunque un uso eccessivo del simbolo della croce, unicamente perché, afferma Burelli ,«altrimenti la gente non capirebbe che quell’edificio, che potrebbe essere qualunque altra cosa, è una chiesa». «L’architetto ha bisogno di vincoli», ha tuonato Burelli, osservando che nell’architettura sacra operano «architetti muti, poiché non riescono ad esprimere il significato di ogni elemento spaziale, e liturgisti ciechi dal punto di vista della percezione spaziale», laddove invece architetto e liturgista si dovrebbero confrontare. L’architettura sacra deve contenere e manifestare il «genius loci» radicato nel culto. Non a caso infatti molti edifici religiosi occupano luoghi di precedenti religioni e non c’è nulla di più emozionante che entrare in chiese che hanno ospitato altri riti, come ad esempio i templi greci di Atene e Siracusa.
     Tagliaferri ha affermato che il Concilio Vaticano II non ha fornito regole precise per definire l’architettura sacra. Le chiese hanno perso la memoria di essere spazi in cui si produce sacralità e si esce trasformati per diventare spesso ambiti in cui si evidenziano ideologie e si forniscono significati didascalici. L’architettura deve invece essere legata alla liturgia, che a sua volta esprime il rito, cioè il seguire, non modificabile, delle regole canoniche. Il rito si basa infatti sulla ripetizione, basti pensare al ritmo africano del tamburo, che fa apparire presenze e modifica i dati percettivi per far sperimentare l’Altro, un essere molto più grande di quello umano, riproducendo attraverso l’esperienza iniziatica una esperienza religiosa. Il rito attinge infatti al linguaggio percettivo, che precede, come si nota nei bambini, il linguaggio razionale, che è invece divenuto prevalente. Alle chiese moderne manca spesso la capacità di attingere a uno spazio percettivo, come alla liturgia manca quella di attivare l’emozione. Gli spazi sono funzionali, dominati dall’angolo retto, mai emozionali come quelli del tempio greco, delle caverne o delle chiese romaniche o come quelli realizzati da Le Corbusier nella cappella di Rochamp.
     Il rito permette di attingere all’evento in modalità percettiva e non ideologica, per cui il fedele entra nella chiesa per attingere alla presenza del Dio. Per Tagliaferri costruire una chiesa significa «svuotare e riempire uno spazio con dei canoni, delle regole interpretate con tipologie diverse». Fondamentale è evidenziare il cammino liturgico e la chiesa si può interpretare come soglia che fa da diaframma tra lo spazio mondano e quello divino. Secondo Tagliaferri, il rito «è un disciplinato ripasso di atteggiamenti giudicati giusti e produce una pubblica accettazione. Il rito non afferma verità o falsità, ma ha una funzionale pragmatica, produce accettazione pubblica e si pone al di fuori delle convinzioni personali». Compito, non facile, dell’architettura sacra è saperlo interpretare.