storiutis
Dal libro di Anellina Colussi
"Dis'ciapinela tai savours di un timp pierdut"

Anellina Colussi è nata il 24 novembre 1950 a Casarsa della Delizia, dove tuttora risiede. Autodidatta, scrive fin da giovane per passione, poesie, racconti e aneddoti di vita paesana, nella parlata friulana casarsese. Ha ripreso l'attività poetica dopo un lungo periodo dedicato agli impegni famigliari. Nel 1998, partecipando al premio "Arco alpino" a Torino, ha vinto il 4° premio, segnalazione con menzione. Le poesie del concorso rappresentavano i vari idiomi dell'Italia settentrionale. Le sue liriche sono state inserite nello "Strolic" della Società Filologica Friulana di Udine.
(E-mail:
anellina.colussi@email.it)

La “Via Crussis” dal Viners Sant
La ‘zornada a è grisa e il seil al somèa imbrugnat; al è Viners Sant. Encia li ciampanis dai ’zimui, i ciampanii di Ciasarsa, a no vòlin sunâ; a paussin par ciamâ fuarsa e sbrocassi pa la Pasca. Dopo sena, co si ven four par ‘zì a la “Via Crussis”, a ti patafèa ‘na ariata freida; i pensi ch’a saran i ultins colps di sgarets da l’unvier. I tiri sù il golet dal capot e mi invii viers la glisia. Dos feminis cul fasolet leat sot il barbis, a ciaminin a brasseti, contansila. Un omp al ven four da un puartin cu ‘na man in sacheta, comedansi il ciapiel in tal ciaf. A ghi cor devour un trapulut di cianut e l’omp cuant ch’a si innecuarts, a ghi dâ una pessada par cassalu via. –“Urcia via, drenti!”– Chel, cainant, al torna indevour di fuga cu la coda in mies li satis. Mi soi un puc intarzivada e jodint che la “Via Crussis” a è belzà tacada, i cuin stâ indevour. Li lus a son sbassadis par daighi a la funsion un’aria pì ingropada; chel inzenoglassi e levassi di continuo a ogni stassion, al è fâ un pucia di penitensa, almancul par i ‘zenoi ch'a son imbramits pal crut. –“Miserere nostri Domine, miserere nostri”– al ciànta a fuart il plevan, intant che i mocui a partin indevant il bancut par inzenoglassi. Un rocheton di omp vissin di mê al trabas’cèa devour li chirielis, disint strambolots in latin che... Jesu Maria Signour! Cuant ch’al riva a «...de voi fate che le piaghe del Signore!...» invessi al dis: «…che le braghe del Signore!...» A fadia i serci di tègnimi ma, a mi ven un sclop di ridi che i cuin strossalu di scundion, fasint fenta di tossi. Un canajut tal banc pì indevant a no pos stâ fer, cussì la nona ch’a è lì dongia, a ghi mòla un scufiot ta la cadopa a tradimint. Tal dit al fat a si cujeta, coma ‘na cariola ch’a no cìula pì, dopo veila onta di gras. Finidis dutis li stassions, il plevan al dâ la benedission. Encia vuei a è passada, parsè a fâ malincunia a ‘no sintî sunâ li ciampanis; ma da doman di sera a sarâ coma prima. Four da la glisia in ta puc timp la ‘zent a si dispiert, lassant la glisia scura, nuda e freida.

La Via Crucis del Venerdì Santo
La giornata è grigia ed il cielo sembra quasi “imbronciato”: è Venerdì Santo! Anche le campane dei “gemelli”, i due campanili di Casarsa, non se la sentono di suonare. Riposano come per accumulare forza, che sprigioneranno il giorno della Santa Pasqua. Dopo cena, quando si esce di casa per recarsi alla funzione della “Via Crucis”, un vento freddo ci schiaffeggia il viso. Penso siano i rimasugli, ormai, del lungo inverno. Sollevo il bavero del cappotto, incamminandomi verso la chiesa. Due donne con il fazzoletto legato sotto il mento, camminano a braccetto, confidandosi gli ultimi pettegolezzi. Un uomo, uscendo da un portone in ciabatte, tiene una mano in tasca e con l’altra si aggiusta il cappello in testa. Lo rincorre un piccolo cane bastardino, che l’uomo, accortosi di avere dietro, respinge con un calcio, dicendo: –“Vai dentro, svelto!”– il cucciolo guaendo, fa dietrofront e, con la coda fra le zampe, se la da a gambe. Giunta un po’ in ritardo, preso atto che la funzione fosse già iniziata, rimango in fondo alla chiesa, per non disturbare. Le luci sono basse per far in modo che l’atmosfera sia più mesta. L’inginocchiarsi e l’alzarsi di continuo ad ogni stazione della “Via Crucis” è come una penitenza, soprattutto per le ginocchia, intirizzite dal freddo (la chiesa in quei anni non era riscaldata). «Miserere nostri domine, miserere nostri», canta con voce possente il parroco, mentre i chierichetti portano avanti l’inginocchiatoio. Un uomo, sedutomi accanto, non sapendo il latino, mentre canta storpia a tal punto le parole da mettersi le mani nei capelli. Il verso «Santa madre, deh voi fate che le piaghe del Signore….» Diventa: «...madre, deh voi fate che le braghe del Signore…» Con fatica cerco di darmi un contegno, ma riesco proprio a trattenermi dal ridere, anche se cerco di nasconderlo. Un bambino davanti a me, non riesce a stare fermo. All’improvviso la nonna, che gli siede vicino, gli molla uno scappellotto tranquillizzandolo in batter d’occhio, come il dissolversi del cigolio di una carriola appena unta d’olio. Terminate le stazioni della “Via Crucis”, il parroco impartisce la benedizione. Meno male che la giornata odierna è giunta al termine, non sentire più il dolce suono della campane mette malinconia. Da domani sera però sarà tutto come prima. Uscendo di chiesa, la gente a poco a poco si disperde, lasciando quel luogo sacro spoglio e solitario.
 

Il scloput dal barba Daneil
‘Na dì me pari, al à cargat nu fioi tal fier da la bicicleta, e ni à menat là dal barba Daneil. A nol era propit nustri barba dret, ma nu par rispiet i lu clamavin instes cussì. Rivats in tal so curtif, i sin corets viers la stansia indulà che lui, a timp pierdut, al faseva bisignelis. Tal fratimp che il pupà al tabajava cul barba, nu i ‘ziravin ator, tociant se ch’a capitava e curiosant dapardut. Il banc da lavour al era plen di imprescs e in ‘ziru a erin piciats tocs di fiers, lens pa li dalminis, pleris, manis pai marcei, gamelots cun pì cualitats di clauts e brocis e parzora ‘na grossa socia, a era pojat l’incuin. In ta un cianton al era metut un sac di seadura, che il barba Daneil al doprava par supâ il vueli in sorapì, gotat parciera, cuant ch’al cugneva ònzi cualchi imprest. Il louc al era un puc scurut (almancul a mi pareva) e, par lavorâ miei, a era impiada scuasi sempri ‘na lampadina duta infumantada. Chista a pendolava cul fil dal sufit, e a feva da lampadari, un plat di crepa dut scravagnat. – “Fruts a funsiona la sfiondruta ch’i vi ài fat?”–“Si, barba, a trai i claps amondi lontan”– i rispundevin. La sfiondra a era fata cu un toc di len a forma di forcela; in ta li dos bandis, a vegneva leat strent un toc di camera d’aria di roda di bicicletta, e in tal mies di chista a si incolava un tacon di coran, par podei pojâ il clap e cassalu a cualchi ciussa. Nu fioi, i si sfidavin a cui ch’a lu cassava pì lontan. –“Barba Daneil ni atu finit il scloput?”– I nustri vui a luzevin intant che cul nas pararia i spetavin ch’al rispundes. –“Sarpint lari” (al era un so mout di disi), a mi displas, i nò ài vut propit timp di ‘zi indevant cul lavour, paraltri tornait a jodi stemana ch’a ven.”– Al era tant timp ch’a veva di fani un scloput, ma ogni volta ch’i ‘zevin ulà a nol era mai rivat a ‘zi indevant, par un sant a par chel altri (i ài capit dopo il parsè; lui al era contrari a li armis). La saguma era belché fata; un toc di len di cuargnoleta slissat e net tanchè un dint di cian. A lu veva pojat parzora di un barcon sierat, ch’al cunfinava cu ‘na stropa. –“Ulì al è sempri sot i vui, cussì i mi impensi di finilu”– a ni diseva. Però no ‘na volta no chê altra, il lavour nol è mai stat finit; lui al è muart enciamò ‘zovin e il scloput di cuargnoleta al è restat in tal barcon, dismintiat, dut plen di sgarpiis. Chel recuart a mi soven enciamò e a mi fa pensâ cun nostalgia a chel louc.

Il piccolo fucile dello zio Daniele
Un giorno mio padre, dopo aver caricato me e mio fratello sul ferro della bicicletta ci ha portati a trovare lo zio Daniele. Non era proprio nostro zio però, ma noi per rispetto lo chiamavamo così. Giunti nel cortile di casa sua, abbiamo proseguito dirigendoci verso la stanzina dove egli, a tempo perso, faceva dei piccoli lavori. Mentre il papà si intratteneva con lo zio, noi due curiosavamo toccando ogni cosa. Il tavolo da lavoro era pieno di arnesi e tutt’intorno alle pareti della stanza, erano appesi dei pezzi di ferro, legni incavati per gli zoccoli, imbuti, manici per i martelli, lattine contenti diverse misure di chiodi e infine sopra un grosso ceppo era appoggiata un’incudine. In un angolo si trovava un sacco contenente della segatura, che lo zio Daniele usava per assorbire l’olio in eccesso, caduto sul pavimento, quando oliava gli arnesi da lavoro. La stanza era piuttosto buia (almeno a me dava questa impressione), perciò per vederci meglio, lo zio teneva sempre accesa una lampadina diventata opaca a causa della polvere, che pendeva dal soffitto e sopra di essa era sistemato un piatto di smalto bianco, un po’ rovinato. –“Bambini, funziona la piccola fionda che vi ho fatto?”– ci chiese lo zio. –“Si possiamo lanciare i sassi molto lontano.”– La fionda era stata creata con un pezzo di legno sagomato a forma di forcella: ai due lati era legato molto stretto un pezzo di camera d’aria di una vecchia ruota di bicicletta, al centro della quale era legata una toppa di cuoio che fungeva da appoggio per lanciare i sassi. Spesso noi bambini gareggiavamo sfidandoci a lanciarli il più lontano possibile. –“Zio Daniele, hai finito di costruirci il fucile?”– gli chiedemmo ansiosi di conoscere la sua risposta. I nostri occhi luccicavano, mentre stavamo con il naso all’insù, ci ha risposto: –“Serpente ladro” (era una sua tipica esclamazione), mi dispiace bambini, non ho avuto ancora il tempo di ultimarlo. Ripassate la settimana prossima!”– Era da tanto tempo che ci aveva promesso un fucile. Ogni volta, però, che ci recavamo da lui aveva sempre una scusa pronta per dirci che non lo aveva ancora terminato di fare (ho capito più tardi il perché: egli era contrario alle armi e non voleva che ci giocassimo). La sagoma era già stata costruita: un pezzo di legno di corniolo liscio e pulito quanto un dente di cane. Era stato sistemato su un balcone murato, confinante con una siepe sempreverde. –“L’ho sempre dinnanzi, così mi posso ricordare di terminarlo!”– ci diceva. Ma tutte le volte si verificava la stessa cosa, così non fu mai terminato. Ancora giovane lo zio ci lasciò, ma quel piccolo fucile di corniolo è rimasto sul balcone, quasi dimenticato, pieno di ragnatele. Quel ricordo mi sovviene ancora e mi fa ripensare con nostalgia a quello stanzino.

La sveada da la vierta
Li zornadis gustant il soreli, a si distirin slungiansi sempri di pì. Li primis gemis, par no essi di mancul, a sèrcin cun afanu un bus par ‘zì four, par ciatâ chistu soreli e vei la lus par cressi. Encia i oufs a stan par vierzisi, scujerzint una creatura sensa plumis, ch’a clòpa di ca e di là, scuasin ch’a fos vegnuda four da una fres’cia gema. ‘Na sbissa a fa bosseti cul ciavut da ‘na crepa dal mur, e di rescous a s’ciavàssa corint il toc da la mureta. Dos mos’cis a si còrin devour, ‘zujant a ciapassi; ades a ‘ndè restada dòma che una e, a stâ netantsi li satutis, par cassâ via dal dut i ultins raciots dal unvier. I passaruts e i mierlis a son ducius indafarats a serciâ cualchi frosc di fen e cualchi legnut par fâ sù il nit. Encia chei ch’a fan l’amour, i ‘zovins, coma li gemis fres’cis, li fofis morselutis di un frutut apena nassut, si fan promessis magari vecionis, ma sempri novis, di ‘zuramints par voleissi ben e di misterious segrets. La ‘zent à tacat a svuangiâ i orts; si sint dut un tichignâ di pala, saputa e ris’ciel, e la ciera cun chel fun movut cul sut, a par ch’a sborfi par essi stada lassada massa timp fèrma. Sora sera, li feminis di ciasa, a ciapin sù belzà in cualchi eca, la salatuta nova, fres’cia e verda lusinta. Mangiantla, a à chel savour di nouf e di ariuta lisera da la vierta, ch’a ti ven vota di respirâ a plens polmons.

Il risveglio della primavera
Le giornate assaporando il sole, si “stiracchiano” allungandosi sempre di più. Le prime gemme, per non essere da meno, cercano con affanno una apertura per uscire alla luce e crescere. Anche le uova stanno per schiudersi lasciando intravedere una creatura implume che dondola da una parte e dall’altra, quasi fosse appena uscita da una fresca gemma. Una lucertola, fa capolino da una crepa del muro e di nascosto lo attraversa velocemente. Due mosche si rincorrono giocando. Ne è rimasta solo una, mentre l’altra è intenta a pulirsi le zampette, per cacciare via gli ultimi residui dell’inverno. I passeri e i merli sono tutti indaffarati a cercare qualche fuscello di fieno e qualche legnetto, per costruirsi il nido. Anche gli innamorati, giovani e freschi come le gemme e le morbide guance dei neonati, si fanno promesse d’amore e si raccontano misteriosi segreti. La gente ha iniziato a vangare gli orti, perché si ode dappertutto un ticchettio di pala zappa e rastrello e la terra, rimossa dallo zappare, sembra che sbuffi per essere stata lasciata ferma per troppo tempo. Verso sera le donne raccolgono già in qualche orto l’insalatina, fresca e lucente appena cresciuta. Assaporandola, si avverte quella gradevole sensazione al palato che sa di nuovo e di brezza leggera di primavera, che avresti voglia di respirare a pieni polmoni.

Il caret da li montagnaris
Li montagnaris o sedonaris, a erin feminis ch’a vegnevin jù da l’alta Val Selina; dal inisi da la vierta, fin a dut ‘zuin. A tiravin il caret cun doi timons a man, e par fâ mancul fadìa e frontâ miei la strada, a vevin leat dos strichis di tela fuarta che dal caret a ‘ziravin ator li spalis. Di flanc e par drenti di chistu caret, a ficiavin plen di impresc’ di len fats a man. Palotis pa la farina, breis pa la polenta e par il pestat, menescui, oufs par mendâ li cialsis, ‘zeis, cossuts di belessa, ris’cjelis, pestassai, fus par filâ, sestutis par la gùcia, piciadours e ciassis di ogni misura. A stevin encia cualchi meis sensa tornâ a ciasa so, e a passavin ogni porton dai pais sempri a piè. Feminis fuartis e coragiosis ch’a no vevin poura di nuja. A metevin cotulis lungis e, pì da li voltis neris fin ta li cragnolis, e fasoletons di ciaf leats ta la cadopa, ch’a li fasevin someâ vecis prin da l’ora. Pa la not a si ghi deva da durmî in ta la ciesa o tal stali. Intant ch’a pareciavin la cova in tal fen, a si ghi partava alc da sena. A la matina cuant ch’a si ‘zeva tal stali, a erin belzà ‘zudis via, lassant coma regal dos ciassis di len. Ogni dì cussì, cul seren coma cu la ploja, par tirâ dongia ches cuatri palanchis. I bes a jù platavin in enfra li cotulis, ta una sacheta cuzida par drenti. Tai piè a vevin sempri i scarpets di tela cusits a man, cu la ponta voltada par in sù. A la domenia a giavavin dal caret, un biel par di scarpets ricamats parzora a flours, e un grumal di velut “par mudâ la scussa”, a disevin. La ‘zent a li assetava volenteir, parsè in ta lì ciasis a manciava sempri cualchi ciussa; bes and’era pus e cun lour si podeva fâ gambiu cun cualchi ‘zei di panolis. A vendevin encia sacs di milusuts da li lour bandis, di bon odour e cu la scussa blancia e rossa, coma li morselis da li montagnaris. I milus a si jù slargiava in tal camarin, e duta la stansia a si imbombava di chel bon odour, ch’a someava di essi distirats in mies dai prats sot chei arbui cargus di frutan. Chis’cius sintimints, sensasions e recuarts a ti menin ator, coma il vint ch’al scòrsa li nulis parzora li montagnis.

Il carretto delle montanare
Le montanare, donne provenienti dalla Valcellina, percorrendo le strade dall’inizio della primavera a fine giugno, scendevano giù in pianura trainando il loro carretto a mano, il quale per alleggerire in qualche modo il peso ed affrontare meglio la strada, era dotato di due timoni attorno ai quali erano attorcigliate due corde di tela rigida, che poi legavano attorno alle spalle. Appesi ai lati e all’interno del carretto, erano sistemati e disposti in bella mostra numerosi utensili di svariate grandezze, interamente scolpiti a mano nel legno. C’erano pale di legno assai larghe e incavate, assi per rovesciare la polenta ed il battuto, mestoli, oggetti a forma di uova per rammendare le calze, ceste, gerlette portavasi, rastrelli, pesta sale, attaccapanni, fusi per filare la lana, cestini per l’occorrente del lavoro a maglia e ramaioli di ogni misura. Le montanare rimanevano anche qualche mese lontane da casa. Camminando, sostavano in ogni paese, bussando ad ogni portone, per vendere i loro utensili. Erano donne energiche e coraggiose. Indossavano gonne di colore il più delle volte nero fino al malleolo e in testa portavano un fazzolettone legato dietro alla nuca, che le faceva apparire più vecchie. Sostavano di tanto in tanto nelle stalle e nei fienili delle case contadine, lasciando il loro carretto sotto i portici accanto ai carri. Mentre si apprestavano a prepararsi per la notte, si portava loro qualcosa da mangiare. Alla mattina presto, quando ci si recava a governare le mucche nella stalla, loro se n’erano già andate, lasciando due mestoli come ricompensa. Ogni giorno, con il brutto o con il bel tempo, le montanare cercavano ugualmente di vendere la propria merce, per ricavare qualche soldo. Esse nascondevano il denaro in una tasca cucita all’interno della gonna. Ai piedi calzavano i “scarpets”: scarpe di tela e raso con la punta rivolta all’insù. Per i giorni festivi erano solite calzare dei “scarpets”, dotati di ricami a fiori sulla tomaia e legavano alla vita un grembiule di velluto. La gente le accoglieva volentieri, perché in ogni casa potevano barattare qualche utensile con ceste di pannocchie, in quanto di soldi ce n’erano pochi. In autunno vendevano anche qualche sacchetto di castagne in cambio di piccole mele con sfumature bianche e rosse come le guance delle montanare. Le mele venivano disposte in una stanzetta, nella quale solitamente si metteva il formaggio. Il profumo che emanavano faceva immaginare di essere stesi in mezzo ai prati sotto gli alberi carichi di buona frutta matura. Questi sentimenti, sensazioni e ricordi che ci trascinano come il vento, che spazzola le nuvole sopra i monti.

 I surisus
–“Daipo fruts ‘zin sù tal solar che, par stasera, i vin da vei finit di parâ jù duta la blava.”– Cussì a ni à dita nustri pari chel dì. Intant ch’i ‘zin sù nu fioi i si fasin schers un cu l’altri saltant i s’cialins doi a doi, tigninsi dur ta la mantangula di fier da li s’cialis. Tirat il clostri da la puarta i ‘zin drenti. –“Orpo, cuanta blava ch’a è enciamò di disgragnolâ – i disìn in coru – ma prima tacan e prima finin”– Cussì di bon estru, un al càrga li panolis tal ‘zei, il pupà a li rebàlta drenti la machina da la blava e chel altri a pàra jù menant la mantia. Da ‘na banda a colin i grignei e par di là a vègnin sburtats four i scoi. Il sussur dai ingranagius ch’a sgragnolein li panolis, al sturnis e par ciacarâ a si cuin sigâ. Podopo un toc di timp, a è restat dòma un grun di panolis ta un cianton. –“Fers! – al dis nustri pari – spetait ch’i cioi la forcia, chê cun cuatri dinc’, par sburtâ a plan.”– Alsa par chi e poca par di là, a un sert punt a s’ciàmpa four una suris duta spagutida, ch’a cor sù pal mur fin tai trafs dal tet, platansi ai nustri vui. Me pari al dis: –“Sot chel grun ulì, al dovares essi il nit dai so piciui; fasin svelts a finî che jù vedareis!”–  Co vin parat jù encia l’ultima panola, sicut ch’al veva projodut il pupà, tal cianton i scuierzin una biela gràmpa di ciaviei di panola. I si scufan  par jodi miei: la suris à propit fat un biel lavour. Il nit al è fat a scugieluta, dal sigur i piciui ulì drenti a staran cialts. Slargian a planin il nit e, in mies scolassats un dongia l’altri, i ciatan sei surisus, gris parzora la schena e colour rosa par sot la pansa. A no son pì grainc’ di una ‘zizial. Li besteutis a son enciamò vuarbis, sensa peil e a si movin coma al ralentadour. I stin a vuardâ incantesemas e podopo cul deit jù tocian. A son cussì fofs ch’a par di rompiju. Intant la nustra giata a è vegnuda sù e sintint chei laments, a si vissina al nit. Il pupà al dis: –“Eh chi, a sares roba di mangiâ par ic!”– Nu i lu vuardan coma ch’al ves tirat jù ‘na saraca. Lui jodint li nustris musis malcontentis al ‘zònta, cassant indevour la giata: –“Bon dai lassantiu ulì, che cuant ch’i sarin ‘zus via ‘nu, a tornarâ la suris a governaiu.”– Cussì contents i ‘zin jù pa li s’cialis saltussant, par ‘zì a contaghi a mê mari se ch’a ni veva capitat sù tal solar.

 

I topolini
–“Forza bambini, andiamo nel solaio. Entro stasera deve essere stato sgranato tutto il granoturco”–
dice nostro padre. Mentre saliamo due scalini alla volta, tenendoci al passamano di ferro della scale, noi bambini ci facciamo dispetti. Dopo aver liberato la porta dal catenaccio, entriamo. –“Accipicchia: quanto mais c’è ancora da sgranare – diciamo in coro. Ma tanto si sa: “chi ben comincia è a metà dell’opera”. Uno di noi carica un cesto di pannocchie, che mio padre rovescia nella macchina per essere sgranate mentre un altro gira la manovella. Da un lato scendono i granelli, mentre dall’altro cadono i tutoli, spinti dagli ingranaggi. Il rumore della macchina è talmente assordante da costringerci a gridare per sentirci. Trascorso un po’ di tempo, il lavoro è quasi completato. Di pannocchie ne sono rimaste solamente un mucchio in un angolo del solaio. –“Fermi!”– intima il papà –“Aspettate che prenda il forcone dai quattro denti per rovistare adagio.”–  Rovistando nelle pannocchie da un lato e dall’altro, ad un certo punto sbuca fuori un grosso topo spaventato, che correndo si arrampica su per il muro. Raggiunge le travi del tetto, scomparendo poi alla nostra vista. –“Sotto quel mucchio di pannocchie, dovrebbe esserci il nido dei topolini – aggiunge mio papà – terminiamo velocemente il lavoro così li potremo vedere.”– Come ci aveva predetto, infatti, sotto il mais troviamo un bel mucchio di “barba” di pannocchie, ma ci accovacciamo per osservare meglio. Il topo femmina ha proprio fatto un buon lavoro! Il nido richiama la forma di una scodellina; sicuramente al suo interno i cuccioli staranno caldi. Allarghiamo delicatamente la “barba” ed al centro, acciambellati uno accanto all’altro, scorgiamo sei topolini con il dorso grigio e la pancia rosa. Non sono più grandi di un ditale. Le bestioline sono ancora cieche, senza pelo e si muovono adagio come al rallentatore. Stiamo per un po’ a guardare incantati. Nel frattempo la nostra gatta ci ha raggiunto nel solaio e si è avvicinata con fare incuriosito a quei deboli squittii. –“Eh, qui ci sarebbe cibo per lei!”– dice nostro padre, mentre noi lo guardiamo addolorati. Egli, allontanando la gatta e notando le nostre facce sconvolte, aggiunge: –“Su dai, lasciamoli lì, così quando ce ne saremo andati, la loro madre tornerà ad accudirli.”– Felici di questa saggia decisione, prendiamo in braccio la gatta e scendiamo in fretta le scale. Saltellando dalla contentessa non vediamo l’ora di informare nostra madre di ciò che abbiamo visto, quel pomeriggio, nel solaio.

 Recuardant il prin dì di Coresima
-“Fruts, vuei a si cuin fâ dizun e astinensa da la ciar, e stasera ‘zi in glisia a ciapâ la sinisa.”– Cussì a dis mê mari, intant ch’i sieran la puarta da la cuzina, par fâ marìnda.
Cui sa parsè, cuant ch’a no si pos mangiâ, a ven ‘na fan ch’i ti podaressis inglutî un polas bessoul. Alora il lat cialt e il cafè di orzul dal calderin, vuei dòma nasalu, se nò se coresima a eisa! Viers misdì, a si tàca a sintî chel odour fuart ch’al bèca il nas, di saradelis sot sal. A sfrìsin, cu la savola in tal farsurin cu la mantia un puc brusada, in banda la stua. Il tociut al è pront par cunsâ i bigui in salsa. A la sera, intant ch’i pareci la taula, la mama a cioi un sfuei di ciarta velina indopleada, e lu met parzora la stua. Podopo a poja, a voul dita sigur a poja, parsè a met scuasi cun devossion la renga, il mangià di coresima dai furlans, ta la ciarta onta di vueli. Man man ch’a si brustùla, i sclipis a saltin ator la stua, mandant sù un odour di roba fumantada. In ta un’altra tecia a stan bulint i oufs durs, par cunsaiu in salata cul pressembul sminussat parzora; radic cul suc par finî il gustà. Ormai ducius i vistits ch'a si à intor a son imbombats di renga cueta, ma stasera a la funsion da la sinisa, a nasaran ducius compains!

Dopo sena, amondi infagotats par il freit ch’al è four, a si vâ in glisia. Ciaminant pal marciapiè dal borc, a si nàsa il stes odour ch’a si à apena lassat a ciasa, messedat cun chel da la polenta brustulada (odours che al dì di vuei a si nasin amondi di clar). Drenti in glisia, i bancs a son belzà plens di ‘zent inzenoglada, ch'a spèta il plevan ch’al tachi la funsion. A un sert punt, a si si met in coda par ciapâ in tal ciaf la sinisa. «Pulverem eras et pulverem rebidis», al dis il plevan. Varinu propit di tornâ coma la sinisa? I pensi jò. A si capiva dòma ches peraulis ulì in latin, parseche il plevan a ni veva spiegat il significat milanta voltis. I vuardi la ‘zent ch'a torna indevour cu la sinisa tal ciaf. Chei ch’a àn i ciaviei gris a si confunt, chei dai ciaviei neris invessi a someja ch’a vedìn doi-tre fii di arzent in mieis ch’a lusin. Ognun pì tars, tornant viers ciasa, a talpignèa pal borc par rivâ in tal clip a la svelta a s’cialdassi i vues incrudulis (parsè in glisia, in chei ains, ris’cialdamint dòma a flat!). 

Ricordando il primo giorno di Quaresima
–“Bambini, la giornata di oggi è dedicata al digiuno e all’astinenza delle carni. Inoltre questa sera dovremo recarci in chiesa per la celebrazione delle ceneri!”–
Ci dice mia madre, mentre si chiude la porta della cucina.

Chissà per quale motivo nel momento in cui ti si vieta di mangiare, avverti un tale appetito, che potresti mangiare un pollo da solo. Di conseguenza del latte caldo e del caffè d’orzo che bolle in un pentolino, si tenta solamente di ricordarne l’odore; altrimenti che quaresima sarebbe! Verso mezzogiorno, si sente quell’odore di sardine sotto sale talmente forte, da stuzzicare l’odorato. Le osservo friggere assieme alla cipolla in un tegamino con il manico un pò bruciacchiato in parte alla stufa. Il sughetto è ormai pronto per condire i “bigui in salsa” (spaghetti in salsa). Alla sera, mentre preparo la tavola, mia madre dopo aver preso un foglio di carta velina piegato in due, lo pone sopra la stufa. In seguito, una volta unta la carta d’olio, vi appoggia sopra con devozione l’aringa, cibo friulano tipico del periodo di quaresima. Man mano che si rosola, alcuni schizzi si spargono qua e la sopra la stufa, diffondendo un odore di pietanza arrostita. In un altro tegamino stanno bollendo le uova, che una volta sode, verranno condite in insalata con del prezzemolo, accompagnato da del radicchio con la radice per contorno. I nostri vestiti si sono impregnati dell’odore dell’aringa, ma stasera alla funzione delle ceneri, si confonderà con quello degli altri.

Dopo cena, infagottati a causa del freddo che c’è, ci si reca in chiesa. Camminando lungo il marciapiede del borgo, si avverte il medesimo odore che avevamo a casa, unito a quello della polenta abbrustolita (queste gustosità al giorno d’oggi si annusano molto di rado!). In chiesa, la gente ha già preso posto nei banchi riempiendoli, e inginocchiata aspetta che il parroco dia inizio alla celebrazione. Ad un certo punto, ci si mette in coda per ricevere la cenere che ci verrà posta in testa. «Pulverem eras et pulverem rebidis» dice il parroco. Dovremo proprio tornare come la cenere? Penso io. Queste poche parole erano le uniche che noi fedeli riuscivano a capire della funzione, interamente celebrata in latino. Osservo la gente che dopo aver ricevuto la cenere, riprende posto nei banchi. La cenere si confonde tra i capelli grigi delle persone anziane, mentre assomiglia a fili d’argento nelle altre. Conclusa la celebrazione, si ritorna a casa, camminando spediti per il borgo per giungere più velocemente alle nostre case a riscaldarci le ossa infreddolite (perché in quegli anni la chiesa non era riscaldata).

Li dalminis
A vuardâ li scarpis dal dì di vuei, a si disares ch’a son sempri stadis cussì. Invensi jò i mi recuardi tancius ains fâ, che me pari al meteva tai piè scuasi sempri li dalminis. Li dalminis, par cui ch’a nol sa, a erin ches “barcis di len” che, se no si veva un pucia di creansa a dopralis, a si ciapava cualchi biela paca ta li cragnolis. Duncia, in ciasa a li partavin i me genitours par ‘zì four in tal curtif. Me pari a li meteva encia par ‘zì in ostaria, cuant ch'a ploveva o neveava. Jò i tentavi cualchi volta di provâ a metilis, ma sicoma ch’a erin ‘na cuarta pì lungis dai me piè, bastava ch’i fasessi un pus di metros, ch’a mi dolevin li polpis da li giambis, di tant ch’a pesavin. A disi la veretat, ti si innecuarsevis cuant che il pupà al rivava belzà dal porton, parsè al faseva tant sussur ciaminant ta la glera. Di chei ains a vegneva bondansia di neif, e chistis dalminis a tegnevin i piè isolats dal umit e dal freit, e ‘zontant un par di calsins gros di lana, fats a gùcia, a jù tegnevin amondi cialts. Vuei a son dopradis amondi puc, parsè a son altris comuditats, ma a erin robis sanis e naturalis.

Gli zoccoli di legno
Osservando le scarpe che calziamo, si direbbe che siano sempre state così. Mentre mi ricordo che tanti anni fa, mio padre era solito calzare li “dalminis”. Per chi non le conoscesse, erano degli zoccoli di legno scavati in solo pezzo e se non si prestava attenzione, si rischiava di procurarsi qualche bella botta ai malleoli. Abitualmente le indossavano i miei genitori per recarsi nell’aia. Quando c’era brutto tempo mio padre le metteva anche per andare alla sera in osteria. Qualche volta tentavo di provarle, ma avendo il piede di qualche numero più piccolo, a malapena riuscivo a fare qualche passo, che i polpacci mi dolevano da tanto erano pesanti. Quando il papà rincasava, già dal portone, si udivano i suoi passi, provocati dal rumore degli zoccoli sulla ghiaia. In quegli anni, durante l’inverno nevicava copiosamente, ma li “dalminis” riuscivano ad isolare i piedi dall’umidità. Nel momento in cui ci si muniva di un paio di calzini pesanti di lana, lavorati ai ferri, i piedi si riscaldavano maggiormente. Oggi li “dalminis” sono usate relativamente poco, perché sono state sostituite da scarpe moderne più comode. Rimarranno sempre nei miei più cari ricordi come delle calzature sane e naturali.

‘Na zornada di unvier 
L'unvier par tancius viers al è amondi biel. Calumant li piciulis robis ch’a si à ator, a si scuierts da li situassions, ch’a si à passat una volta, coma ta ‘na pelicula. …La giata fumula ingrumada tai sacs sot il puartin, a distìra li satutis vierzint la bocia par ospedâ. A chistu scat a si svèa il piciul ch’al durmis in banda di ic. Al si tira sù, e ‘zint via di sledroson al vâ a tetâ sot di ic. Il pupà al ven four da la puarta di ciasa par governâ li vacis e il polan. Al è dut intarabossat pal freit crut ch’al è vuei. Al trai un starnudon cussì a fuart, ch’a si sint l'eco fin dopo il stali. Ta l’ort i cours di verza, cu la brusa, a son cussì durs ch’a somein innamidats. Mê mari a viers il barcon da la stansia e a sièra subit li lastris sdrondenanlis, par lassâ four il freit. In cuzina il fouc al crepetèa ta la stua, e dal calderin al ven sù un bon odour di cafè di orzul, da podei messedalu podopo cul lat apena molt. Nu canais, un devour chel altri, i vegnìn jù da li ciamaris ducius plens di fan, par fâ marìnda. Il nini pì piciul al à i calsinuts in man e alora mê mari a viers la portela dal for e a jù met a s’cialdâ, prin di metighiu sù. Jò, fia pì vecia, i soi vistida da un biel toc, e i soi ‘zuda il tal for, a crompâ il pan. A si sìntin da lontan li dalminis dal pupà: –“Ve chi ch’al è il lat!”– al dis. Via a bulilu e podopo implenida la scugiela di lat e cafè di orzul, a si fràcia drenti il pan fresc enciamò tivit. Dopo marindat, via a scuela cu la sborsa sot il bras.

Una giornata d’inverno
Per alcuni aspetti l’inverno può essere incantevole. Osservando le piccole cose che ci circondano, si ha l’impressione di averle già vissute come in un film…
La gatta color fumo, rannicchiata sopra alcuni sacchi sistemati sotto il portico, si stiracchia le zampette, spalancando la bocca per sbadigliare, svegliando così il cucciolo, che dorme al suo fianco. Si alza e, camminando quasi frastornato le si avvicina per succhiare il latte. Mio padre esce dalla porta di casa, per governare mucche e pollame. E’ tutto imbacuccato per il freddo pungente di oggi. L’eco di un suo starnuto improvviso si avverte fino aldilà della stalla. Nell’orto i cuori delle verze, ricoperti di brina, sono così induriti da sembrare inamidati. Dopo aver aperto gli scuri della cucina, mia madre chiude velocemente le finestre, sbattendole, affinché il freddo rimanga fuori. Il fuoco nella stufa crepita e dal pentolino sale un buon profumo di caffè d’orzo, che successivamente versa aggiunto al latte appena munto. Noi bambini, uno dietro l’altro, scendiamo dalle camere tutti affamati per far colazione. Il più piccolo di noi, con i calzini in mano, si avvicina a mia madre, la quale prima di infilarglieli, li mette a scaldare nel forno. Io, che sono la primogenita, vestita ormai da un pezzo, sono già stata a comperare il pane dal fornaio. Si odono da lontano gli zoccoli del papà: –“Ecco qua pronto il latte!”– dice. Dopo averlo bollito, se ne riempie la scodella assieme al caffè d’orzo, e si intinge dentro il pane. Dopo colazione via a scuola con la cartella sotto il braccio!

‘Na zornada di unvier 
Lunvier par tancius viers al è amondi biel. Calumant li piciulis robis ch’a si à ator, a si scuierts da li situassions, ch’a si à passat una volta, coma ta ‘na pelicula. …La giata fumula ingrumada tai sacs sot il puartin, a distìra li satutis vierzint la bocia par ospedâ. A chistu scat a si svèa il piciul ch’al durmis in banda di ic. Al si tira sù, e ‘zint via di sledroson al vâ a tetâ sot di ic. Il pupà al ven four da la puarta di ciasa par governâ li vacis e il polan. Al è dut intarabossat pal freit crut ch’al è vuei. Al trai un starnudon cussì a fuart, ch’a si sint l'eco fin dopo il stali. Ta l’ort i cours di verza, cu la brusa, a son cussì durs ch’a somein innamidats. Mê mari a viers il barcon da la stansia e a sièra subit li lastris sdrondenanlis, par lassâ four il freit. In cuzina il fouc al crepetèa ta la stua, e dal calderin al ven sù un bon odour di cafè di orzul, da podei messedalu podopo cul lat apena molt. Nu canais, un devour chel altri, i vegnìn jù da li ciamaris ducius plens di fan, par fâ marìnda. Il nini pì piciul al à i calsinuts in man e alora mê mari a viers la portela dal for e a jù met a s’cialdâ, prin di metighiu sù. Jò, fia pì vecia, i soi vistida da un biel toc, e i soi ‘zuda il tal for, a crompâ il pan. A si sìntin da lontan li dalminis dal pupà: –“Ve chi ch’al è il lat!”– al dis. Via a bulilu e podopo implenida la scugiela di lat e cafè di orzul, a si fràcia drenti il pan fresc enciamò tivit. Dopo marindat, via a scuela cu la sborsa sot il bras.

 

Una giornata d’inverno 
Per alcuni aspetti l’inverno può essere incantevole. Osservando le piccole cose che ci circondano, si ha l’impressione di averle già vissute come in un film…
La gatta color fumo, rannicchiata sopra alcuni sacchi sistemati sotto il portico, si stiracchia le zampette, spalancando la bocca per sbadigliare, svegliando così il cucciolo, che dorme al suo fianco. Si alza e, camminando quasi frastornato le si avvicina per succhiare il latte. Mio padre esce dalla porta di casa, per governare mucche e pollame. E’ tutto imbacuccato per il freddo pungente di oggi. L’eco di un suo starnuto improvviso si avverte fino aldilà della stalla. Nell’orto i cuori delle verze, ricoperti di brina, sono così induriti da sembrare inamidati. Dopo aver aperto gli scuri della cucina, mia madre chiude velocemente le finestre, sbattendole, affinché il freddo rimanga fuori. Il fuoco nella stufa crepita e dal pentolino sale un buon profumo di caffè d’orzo, che successivamente versa aggiunto al latte appena munto. Noi bambini, uno dietro l’altro, scendiamo dalle camere tutti affamati per far colazione. Il più piccolo di noi, con i calzini in mano, si avvicina a mia madre, la quale prima di infilarglieli, li mette a scaldare nel forno. Io, che sono la primogenita, vestita ormai da un pezzo, sono già stata a comperare il pane dal fornaio. Si odono da lontano gli zoccoli del papà: –“Ecco qua pronto il latte!”– dice. Dopo averlo bollito, se ne riempie la scodella assieme al caffè d’orzo, e si intinge dentro il pane. Dopo colazione via a scuola con la cartella sotto il braccio!

Pan e vin (Foghera)
La sera prima da la Pifania, si ‘zeva in glisia cu la sporta cun fraciat drenti, il sachet dal sal, una butilia par l’aga santa e, doi-tre milusuts tegnuts di banda propit par chê ocasion ulì. Il plevan al passava dongia i bancs da la glisia cun l’aspersori in man, ch’al intinzeva pì voltis ta l’aga santa, par benedì. Ducius a si serciava di tirâ sù li borsis parsè la benedission a rivats dapardut. Il predi al diseva: –"A no coventa giavâ four la roba da li sportis, parsè la benedission a pàssa siet murs."– Finidis li prejeris, a si tiravisi dongia dal mas’ciel, pareciat in mies la glisia, par implenî li butilis cu l’aga, apena benedida. Chista aga a coventava cun di pì che pa la ciasa, encia par benedî i pastons dal polan, da li vacis, pursits e altris bestis, par ch’a tegnes lontan li malatiis.
Chista usansa veciona, a ven four dai ains dal Patriarciat di Aquileia. A no si pos ciatâ confront ta nissuna altra realtat regional. Finida la funsion si ciatavisi dongia i orts, in ciaf dai ciasai al larc, indulà che i omis a vevin ingrumat, par fâ fouc, manulins di cianis, tuartis di vits, vecius arbui e cualchi brea carulida. Impiant un mac di sclofulis, si li fraciava in enfra li cianis. Li flamis tanché essi stadis striadis, a ciapavin fuarsa cussì di gust che li so lenghis a lecavin la tassa di lens dut ator.
La ‘zent in sercli, a vuardava contenta cul nas pararia, intant che il cialt dal fouc al s’cialdava li mans e la musa fasintlis doventâ in bora. Vuardant da cuala banda ch’al tirava il fun, ogniun a si improvisava strolic, par projodi l’avegnì. Li falis’cis a svualavin in ‘ziru coma s’ciaps di lusignis, distudansi subit devour. Ducius a si sigava "pan e vin", coma bon auguriu di bondansia par l’an nouf.
Cualchi veciu, scoltant ducius i discors, al sierava sù disint: –"O cussì o culà, basta ch’i si deparani da la tampiesta."– In chei ains ch’a no era asigurassion, s’a ves tampiestat a si cugneva bassilâ. E al ‘zontava: –"Se propit a à di vègni alc, almancul ch’an capiti una a la volta."– Tornats a ciasa cui vistits e i ciaviei ch’a pussavin di fun, i ‘zevin dongia il presepiu par pojâ i tre re magi e i camei vissin la grota. La matina devour, dai lens dal "Pan e vin" a restava dòma un grant grun di sinisa e, ca e là, cualchi toc di fil di fier di chei restats inciastrats intor dai muriei di vit. Da Roma a era rivada l’usansa da la befana, cu una naina ch’a diseva cussì: «La befana vien di notte con le scarpe tutte rotte col vestito alla romana viva viva la befana.» Par chistu, nu fruts la sera prima da la Pifania, i pontavin parzora la stua cui ciapins, ta chei fiers ch’a si meteva a sujâ la blanciaria in unvier, una cialsa sperant che la befana a si fermats par implenila cun alc.
I vevin sintut ch’a viagiava cu un mussut ch’a la judava a partâ il peis. Par ingrassiasi la veciuta, i vevin pensat di preparâ una grampa di fen e una mas’ciela di aga, four da la puarta di ciasa pa la puora bestia. La matina devour, i corevin jù pa la s’ciala da li ciamaris par cucâ se in cuzina la cialsa a era sglònfa. Sacor, a si ciatava cualchi milus e un puin di bagigi.
Paraltri cualchi an a cumbinava che "l’usielut dal bosc", passat a Nodàl, al veva lassat un regal pì grossut e alora la cialsuta a restava sclagna, parsè la befana a no era rivada a passâ par ciasa nustra! I corevin four e ciatant la mas’ciela da l’aga enciamò plena e la grampa di fen intera, i nasavin subit che ta la cialsa a no era nuja. –"Poben i pensavin, il prossin an a si fermarâ sens’altri"– e cun chê speransa i tornavin, drenti saltussant a dispiciâ la cialsuta e a s’cialdassi vissin il fouc ch’al sclopetava. Nu il regal i lu vevin par drenti da la nustra famèa, ch’a ‘zeva d’accordu e a si voleva ben.

Falò
La sera prima dell’Epifania, ci si recava in chiesa con una sporta di vimini, contenente qualche pacco di sale, delle bottiglie per l’acqua santa e, qualche mela, tenuta da parte proprio per quell’occasione. Il parroco passava accanto ai banchi, tenendo in mano l’aspersorio, che, dopo averlo intinto più volte nell’acqua santa, utilizzava per benedire. Tutti cercavamo di alzare le borse, perché la benedizione arrivasse anche in profondità. Il prete era solito dire che non serviva togliere le cose dalle borse, perché la benedizione avrebbe attraversato sette muri. In seguito ci si avvicinava con alcune bottigliette ad un mastello colmo d’acqua, posto al centro della chiesa, per riempirle dell’acqua appena benedetta, che sarebbe stata utilizzata per diversi scopi: per benedire la casa, ma anche i pastoni per mucche, maiali e bestiame in genere, e i becchimi per il pollame, nonché infine per tener lontane le malattie.
Questa tipica usanza deriva dal periodo del Patriarcato di Aquileia. Non si trova riscontro in nessuna altra realtà regionale. Ultimata la celebrazione, raggiungevamo orti e spazi di casali nei quali alcuni uomini avevano ammucchiato fastelli di canne, rami ritorti di viti, e qualche tavola di legno tarlata. Acceso il fuoco con delle foglie di pannocchia, si infilava fra le canne. Le fiammelle, quasi stregate, prendevano forza così rapidamente, che le lingue di fuoco ardevano la catasta di legna tutt’attorno.
La gente radunata in un cerchio, guardava felice in silenzio, mentre il calore del fuoco riscaldava le mani ed il viso, arroventandoli. Osservando la direzione verso la quale si sarebbe diretto il fumo, ognuno cercava d’improvvisarsi astrologo, per presagire il futuro. Le faville svolazzavano qua e là come gruppi di lucciole, per poi spegnersi all’istante. Ad un certo punto gridavano "Pan e vin", per ingraziarsi l’anno nuovo.
Ascoltando i discorsi che seguivano, qualche vecchio sbottava: –"Eh, così o colà, l’importante è che ci si possa difendere dalla grandine!"– (in quegli anni, dato che non esistevano le assicurazioni, nel caso in cui fosse venuta la grandine, ci sarebbero stati problemi durante tutto l’anno per tirare a campare). –"Se proprio deve capitare qualcosa, almeno ne venga una per volta!"– terminava il vecchio. Rientrati a casa con vestiti e capelli, che odoravano di fumo, ci si avvicinava al presepio, per aggiungere i tre Re Magi e i cammelli accanto alla grotta. La mattina seguente al falò, non rimaneva che un gran mucchio di cenere e qua e là, qualche fil di ferro. Da Roma era giunta fino a noi l’usanza della Befana con una filastrocca, che diceva così: «La befana vien di notte con le scarpe tutte rotte, col vestito alla romana viva viva la befana». Per questo motivo noi bambini la sera prima dell’Epifania, eravamo soliti appendere ai ferri, posti sopra la stufa, sui quali si stendevano ad asciugare in inverno una calza, sperando che la Befana sostasse per riempirla di qualcosa.
La vecchina viaggiava con un asinello, il quale la aiutava a portare il peso dei regali. Per accattivarci la sua benevolenza, avevamo pensato di predisporre una manciata di fieno ed un secchio d’acqua fuori dalla porta di casa, per sostentare il povero animale. La mattina seguente correvamo fuori dalle camere, scendevamo le scale e raggiungevamo la cucina, per guardare di nascosto, se la calza era stata riempita. Tutto ciò che si trovava erano delle mele ed un pugno di arachidi, mentre qualche anno la calzetta rimaneva vuota, perché Babbo Natale ci aveva portato un regalo più costoso del solito ed infatti si capiva che la Befana non si era fermata, perché il secchio era ancora pieno d’acqua ed il fieno non era stato toccato. –"Eh, và bene, il prossimo anno si fermerà senz’altro!"– Con questa speranza rientravamo in casa, saltellando, a togliere la calzetta e scaldarci accanto al fuoco scoppiettante. Dopotutto, noi il regalo lo avevamo ogni anno all’interno della nostra famiglia, che andava d’accordo e si voleva bene.