i nostri emigranti

Osvaldo Francescon

From: BRUNO CORVA
To: Aldo Taboga
Sent: Sunday, April 28, 2002 1:10 PM
Subject: Storia di un cavassino
Caro Aldo, Osvaldo Francescon era un emigrante di Cavasso Nuovo. Il figlio ha ritrovato un quaderno di appunti in America, e ha deciso di far onore al padre, pubblicandolo. Questo è stato nelle scorso Febbraio 2002, e guardacaso, Osvaldo era fratello di mia moglie (fratellastro).
Non sono cose grandi ma è il friulano che si parlava a Cavasso nel 1920.
La solita vita dell'emigrante, partenza nel 1922, ritorno a casa nel 1927 per sposarsi,  poi un posto nella nave e ritorno in America, nascita del figlio nel 1928. 
Ha potuto ricongiungersi alla famiglia nel 1937 in AMERICA, grazie ad un amico conosciuto da militare a Gorizia QUANDO FACEVA L'ALPINO... che gli ha prestato i soldi per pagare il viaggio ai suoi, e finalmente vedere suo figlio e riabbracciare la moglie. 
AVEVA SEMPRE IL DESIDERIO DI TORNARE... ma niente...!
Questa è la storia di tanti friulani.... morire col desiderio di tornare a casa dove si è nati.
Ha scritto questi appunti, con il pensiero sempre rivolto al suo paese.
Vedi se puoi inserire questa storia, NEL CASO POSSA SERVIRE PER QUALCHE CAVASSINO NEL MONDO.
mando con piacere i saluti da parte di ELIO, anche i miei, Bruno Corva.

     Il circolo Culturale “Castel Mizza”, in collaborazione con la Provincia di Pordenone e con il Comune di Cavasso Nuovo, ha recentemente dato alla stampa il volumetto “Non soi poeta”, che contiene poesie in friulano scritte tra il 1920 e il 1938, dall’emigrante cavassimo Osvaldo Francescon, scomparso oltre trent’anni fa negli Stati Uniti.
     Alla cerimonia della presentazione hanno partecipato numerose autorità della zona e il senatore Francesco Moro, che ha ribadito l’importanza di mantenere un legame strettissimo con gli emigranti, “particolarmente in questi momenti di difficoltà – ha detto – delle comunità friulane in Argentina”. Addirittura commossi i parenti dell’autore dei componimenti: il figlio Giovanni, rientrato appositamente dagli Stati Uniti, e i fratelli Domenico e Maria Teresa.
     Nato a Cavasso Nuovo il 3 dicembre 1900, Osvaldo Francescon iniziò a scrivere poesie durante il servizio militare, componimenti semplici, scherzosi, ma che danno l’idea di com’era Cavasso, di come si divertivano, dell’atmosfera che si viveva in quel periodo.
     Partito per l’America nel 1922, dimenticò a casa il quaderno dove scriveva i suoi versi e così dovette riscrivere le sue poesie a memoria, perché non andassero perdute. Il quaderno scritto in Italia è stato ritrovato e conservato dal padre Giovanni e ora è in possesso della sorella Maria Teresa.
     Terminata la trascrizione a memoria dei vecchi versi in un quadernetto intitolato per l’appunto “Memorie”, iniziò a scriverne di nuovi, ma con un tono nostalgico, dove si legge tutta la sua malinconia di emigrante che ha dovuto lasciare le persone a lui care e il suo paese, per andare in cerca di fortuna. Questo secondo “diario” è conservato in America dal figlio Giovanni. Domenico Francescon, fratello dell’autore e promotore della pubblicazione, ha inteso riprodurre fedelmente la copertina del manoscritto originale, in segno di omaggio alla memoria del congiunto, protagonista di un’esistenza tanto generosa quanto sfortunata.

     Osvaldo Francescon nacque il 3 novembre del 1900 a Cavasso Nuovo. Visse qualche anno con gli zii perché i suoi genitori erano emigrati in Germania per lavorare.
     Subito dopo la I Guerra Mondiale fu arruolato nel corpo degli alpini e ottenne il grado di Caporale Maggiore.
     Finita la ferma, nel 1922 partì per l'America dove lavorò come terrazziere.
     Nel tempo libero dipingeva e per un periodo pensò di guadagnarsi da vivere con la pittura, ma non ci riuscì e dovette tornare al vecchio lavoro.
     Si spostò per lavoro in Florida e poi a Miami, dove fondò una società con il cugino Emilio. Poco tempo dopo, però, un uragano distrusse lo stabilimento che avevano costruito e i due persero tutto. Osvaldo si trasferì a Boston dove viveva il fratello Vittorio e qui lavorò per un paio d'anni prima di fare ritorno in Italia per sposarsi con Isolina il 7 febbraio 1927.

     Nell'agosto del 1928, due mesi prima della nascita del figlio Giovanni, c'era posto disponibile sulla nave e si imbarcò per l'America. Un anno dopo, nell'ottobre del 1929, col crollo della borsa Osvaldo, che non era cittadino americano e non parlava bene l'inglese, perse il lavoro. In quel periodo, inoltre, soffriva molto per l'asma, il che gli rendeva ancora più difficile lavorare.
     Andò quindi a Cincinnati da un suo zio che faceva il cuoco in un famoso ristorante e qui lavorò per due anni come custode presso un convento di religiose. Nel 1934 ci fu una ripresa dell'economia ed essendosi abbastanza rimesso in salute andò a lavorare a Dayton, città tra Cincinnati e Columbus dove vivevano molti friulani.
     Nel 1937 si recò a Columbus a far visita alla sorella Frida; qui incontrò Giuseppe De Tedesco che aveva fatto il militare con lui. Quando questi seppe che Osvaldo voleva far venire in America la moglie e il figlio, ma che non aveva i 5OO dollari necessari come deposito di garanzia per lo Stato, gli prestò la somma.
     La famiglia di Osvaldo partì per gli Stati Uniti nel marzo del 1938 ed egli potè rivedere la moglie e conoscere finalmente il figlio che aveva ormai 9 anni.
     Gli anni seguenti furono diffìcili perché i suoi problemi di salute si aggravavano sempre più, inoltre anche Isolina si ammalò e dovette passare tre mesi all'ospedale; cosicché per pagare le cure necessario spesero i soldi risparmiati per tornare in patria.
     Tirarono avanti col lavoro del figlio finché Osvaldo non fu in grado di rimettersi in attività. Ma, dopo la Seconda Guerra Mondiale, le sue condizioni si aggravarono e alla fine morì il 19 giugno 1967 senza aver potuto rivedere la sua amata Italia.



Tratto da I NO SOI POETA, su gentile concessione di 
Domenico Francescon e del Circolo Culturale "Castel Mizza"

NOTE TECNICHE: i testi sono stati riportati così come erano stati scritti, nel friulano di Cavasse Nuovo, da Osvaldo Francescon nell'originale degli anni '20, proprio per mantenerne l'integrità linguistica e culturale.

NON SONO UN POETA

Scusatemi, sapete gente,
ma io non sono poeta,
e non so scrivere, per il momento,
che qualche cosa.

Non si può neanche pretendere,
perché scuole non ne ho fatte
e per darvela solo ad intendere
ho fatto solo quattro classi.

La questione è splendente
ve lo giuro su tutto l'oro,
io sono discendente
di Antonio Foca mio povero bisnonno.

I NO SOI UN POETA

Scusaimi saveo gent
ma jò no s
o
i poeta
e i no sai scrivi pa
l
moment
soul qualchi roba scleta.

A no si pos nencja pratindi
parcè scuelis i non d'ai
fatis
e par d
àvila soul da intindi
i ai fat noma quatri clasis.

La question a è splindìnt
i vi lu giuri su dut l'oru
jò i soi dissindint
di Toni Foca gno pôr bisnonu.

Il mio ritratto

Io sono un ragazzo biondo e alto,
vengo dai Centis e mi chiamano Osvaldo.
Ho il viso, la testa grande,
il naso, la bocca e poi tutto quanto.

La fronte l'ho segnata,
sotto il mento mi sono scottato,
quando ero piccolino
ero in culla e mi chiamavano Osvaldino.

Il mio fare non lo dico
e non lo dirò mai a nessuno,
e poi tutti mi conoscono,
non sono poi qualcuno.

Il gnò letrat

Jò i soi un fantat biondu e alt
i soi dai Centis e a mi clamin Sualt,
i ai il mostaç, il cjâf grant
il nâs la bocja e pò dut quant.

Il çarneli i l'ai segnât
sot la barba i soi scotât
quant chi eri picinin
i eri in cuna e a mi clamavin Sualdin.

Il gnò fà i no lu dîs
e i no lu dirai mai a nissun
e po ducjus a mi conossin
i no soi pò qualchidun.

Destino

Una volta tu mi incontravi.
Non mi dicevi neanche buongiorno.
Tutto perché non mi conoscevi.
Io neanche, ma è venuto il giorno.

È venuto il giorno che ti ho vista,
mi hai fatto subito innamorare,
ti ho detto tutto ed è successo
che dopo un poco ti ho baciata.

Tu avevi un po' di paura,
anch'io un po' di riguardo,
mi sei scappata di corsa
ed io a bocca aperta sono rimasto.

Se adesso tu fossi con me
torneresti a scappare?
Se io ti baciassi adesso
mi torneresti a baciare?

Distìn

Una volta i tu mi incontravi.
I no tu mi disevi nencja bundì.
Dut parcè chi no tu mi conossevis.
Jò nencja, ma a l'è vignût un dì.

A l'è vignût il dì chi ti ai judût,
i tu mi as subit innamorât,
i ti ai dit dut e a l'è sucidût
chi dopu un pôc i ti ai bussât.

Tu i tu vevis un pôc di pòura,
encja jò un pôc di reguârt,
i tu mi sòs scjampada di fuga
e jò cun la bocja vierta i soi restât.

Si ades i tu fòs cun mè
tornaressitu a scjampà?
Si jo ti bussas ades
mi tornaressitu a bussà?

Occhioni

Benedetta quella dai grandi occhi
che è così lontano,
io sempre la ricordo,
oh destino figlio d'un cane!

Benedetta quella grande bocca
che non vedo l'ora di baciare,
assieme a quei grandi occhi
che non posso mai dimenticare.

Non ti dimenticherò mia bella
e a trovarti ritornerò.
Vedrai che bel momento, stella,
e tanto tanto ti bacerò.

Oh Voglona

Benedeta che voglona,
ca è u cussì lontan,
jò simpri i la recuardi,
oh distin fìol d'un can.

Benedetta che bocjona
chi no jôt l'ora da bussà
asiemit a chei voglons
chi no pos mai dismintià.

I no ti dismintiei me biela
e a cjatati i tornarai,
i tu vedaras ce biela ora, stela
e tant tant i ti bussarai.

Il mio paese

È bella la città
e v'hanno divertimenti assai,
ma come il mio paese
non è bella mai.

L'aria è pura,
i ruscelli sono tanto belli,
i campi stanno germogliando
di fiori e di granaglie.

L'inverno è pittoresco,
sembra un mistero
con quei monti pieni di neve
e con quelle colline belle.

Il gnò paeis

A e biela la sitât
e a a divirtimins assai,
ma coma il gnò paeis
a no è biela mai.

L'aria a è pura
i rucs a son tant bièi
i cjamps a son ca nassin
di flours e di grignèi.

L'unvier a l'è pitoresc
a somea un mistèri
cun ches mons plenis di neif
e cun ches culinis bielis.

Quel sentiero

Mi ricordo di quel bei giorno
e di quella bella sera,
di quel sentiero che va giù
per andare in Sirivella.

Quel giorno era lungo,
non voleva mai passare
e non vedevo l'ora
di incontrare qualcuno...

Finalmente ci siamo trovati,
mi sembra come stanotte,
per quel bei sentiero, ci siamo seduti
e siamo stati lì fino a notte.

Chel troi

I mi ricucirai di chel biel dì
e di che biela sera
di chel troi ca va jù
par gi in Siriviela.

Chel dì a l'era lunch
a no voleva mai passa
jò i no vedevi l'ora
qualchidun da gi a cjatà.

Finalmentri i sin cjatâs
a mi somea coma snot
par chel biel troi i sin sentâs
e i sin stâs fint a not.

Il Soflet e li Muletis

Il soflet e l'è necessari
a si lu dopra par soflà il fouc,
li muletis a son pa lis boris
e sa va qualchi stic di four.

Il soflet e li muletis
a son dutis armis da fouc,
a li doprin chês finimutis
par pelai a l'om e paralu four.

Quant cal va a cjasa bivût
li muletis a son preparadis,
e si metin a dâsi botis,
moletadis e sofletadis.

Li cjampanis

In tal'an dal disivot
a li an robadis duti tre
e il campanel insiemit,
par fa soul displasê.

La megiana a la piçula
a li an robadis i Germanz,
e la granda, ca era ultima,
i Austriacos fioi d'un can.

Ma ades a con ches novis
e fuarcia di tant preà,
a la gent no i par vera
a sintì a scampanotà.

 
Ce sino nô?

Chei di Udin a son furlans,
chei di Tolmieç a son Cjargnei,
che di Cjascjelnouf a son Asìns,
e no ce sino? Soul Cjavassins.

Furlàns noaltris i no sin
e i no savin ce chi si clamàn
e pur un non i lu avarìn
forç i non si recuardàn.

Si no si inpensàn i no avin colpa
parcè chi nissun a si a insegnât
ma ca non stein a dimi "Baceda porco"
chi noaltris i sin bastars!
 

 
A messa granda

Chista giuvenût a va a messa
no par gi a preà 
a van soul par ridi
e sa an la morôsa da vuardà.

Prima di ducjus a l’è il Pelôt
cal fai tanta confusion,
soul doi tre a son ca cighin
e a stan devos a l’orasion.

Di feminis andè una
ca ciga pì di dutis,
in devan a son ches bielis
e u la devour a son ches brutis.

Chei fantas ca son in côru 
A non disin un Ave Maria,
a parlin soul di balà 
o da gi a fumà in sacristia.

Ma a no an causa i giovins
ai dan l’esempiu i vecjàs
ca parlin soul di presis
di cjamps e di contràs.

Oh Signour, paron dal mont,
mandaimi jù un baston cui grops 
vedareit chi no farai di mancul 
da dai a ducjus quatri crocs.

 
 A messa grande

 Questa gioventù va a messa
non per andare a pregare,
  vanno solo per ridere
  e se hanno la fidanzata da guardare.

 Prima di tutti c’è Pelôt 
  che fa tanta confusione,
  solo due, tre, pregano ad alta voce
  e sono devoti all’orazione.

Di donne ce ne una
  che grida più di tutte,
  davanti stanno quelle belle
  e dietro stanno quelle brutte.

Quei ragazzi che sono in coro
  non dicono un’Ave Maria,
parlano solo di ballare
  o di andare a fumare in sacrestia.

 Ma non è colpa dei giovani,
  danno loro l’esempio i vecchiacci
  che parlano solo di tabacco da naso,
  di campi e di contratti.

 Oh Signore, padrone del mondo,
mandatemi giù un bastone nodoso,
vedrete che non farò a meno
  di dare a tutti quattro legnate.