i nostri emigranti

Oscar Fèrvidi - Milano
Paese d'origine: Tarcento

Oscar Fèrvidi (Elvira Volpe)
        Oscar Fèrvidi è mio cugino primo, figlio della zia Carmen dei Cjalderùz di Aprato, ed è nato a Milano proprio in tempo per prendersi tutta la guerra fin dall'inizio. Avete presente la famosa fotografia dei Tedeschi con l'elmetto che abbattono la sbarra di confine con la Polonia? Bene, lui era nato una settimana prima - poco più, poco meno: quando si dice che uno ha il senso dell'opportunità... Io no, io sono nata parecchio tempo dopo a Gemona, e mio padre andava avanti e indietro dall'ospedale con quella bici con un solo pedale di cui parla Oscar.
        Oscar ha fatto il suo liceo classico a Milano, poi Chimica a Pavia, poi l'ufficiale nel servizio tecnico d'artiglieria, ed è fin riuscito a saltare in aria lui e il laboratorio e il tritolo che c'era dentro. Di Chimica si è occupato poco, gli interessavano le piante medicinali e andava in giro per il mondo a cercarle. Dov'è stato, sarebbe un lungo elenco: so che non è stato nell'America del Sud. Adesso ha un suo laboratorio chimico, dove non so bene quali pasticci tiri fuori dalle piante: alcaloidi e glucosidi, mi pare. Gli piace la musica, come a suo padre, alla zia Carmen, ai suoi figli, a sua moglie Laura e a me. Faccende genetiche, credo, perché anch'io faccio  l'erborista.
                                                                                   

Oscar Fervidi, mostra un rametto di "Acronychia baueri", una pianta da lui stesso raccolta nell'Australia tropicale, precisamente nello Stato del Queensland. La dottoressa Laura Merzaghi Fervidi. 
Al pari del marito laureata in chimica ed erboristeria, si occupa dell'erboristeria di famiglia a Milano

        Il mio primo ricordo è una cantina di Milano. Una lampadina, fioca, e di tanto in tanto si spegneva, e subito dopo un boato faceva tremare i muri. Si riaccendeva e mostrava facce spaurite, e poi un altro boato e la luce si spegneva ancora e qualche calcinaccio cadeva dal soffitto. E le due zitelle del piano di sotto che dicevano il Rosario. Poi, il suono della sirena, e tutti su a casa. Dov'era mio padre? Non lo so, non ci pensavo, era da qualche parte. Una volta era tornato, in divisa, e mi aveva portato un'automobilina di latta, e avevo dormito con lui nel lettone, tra lui e la Mamma. Ero felice, con la mia automobilina rossa. E con il mio Papà, che ho imparato poi ad amare come meritava.
        E poi, il treno. Via dalla città, diceva la Mamma, qui vengono ogni giorno a bombardare, andiamo a Tarcento. 
        Non mi ricordo quanto durò quel viaggio. Ogni tanto il treno si fermava. Di corsa giù dalla scarpata: Mitragliano, mitragliano! Di Tarcento mi colpirono due cose: i funghetti di cemento alla stazione, rossi e verdi, e io non avevo mai visto niente di tanto bello. E le strade: erano di terra! E di lato avevano i fossi, e in un fosso vidi per la prima volta un rospo. Non sapevo che fosse un rospo, me lo ha detto dopo Beppino Volpe, e diceva che sono velenosi, ma solo quando piove.
Il grande cortile della nonna Nina era pieno di cavalli. E le galline se ne andavano becchettando fra le gambe dei cavalli. Cosacchi, mi disse la Nonna Nina, ma io non sapevo cosa volesse dire. Uno era più grande degli altri e mi teneva sempre in braccio e mi faceva giocare. Sapeva tanti giochi, anche quello con lo spago dove vengono sempre fuori figure nuove, e si chiamava An Khan. Era Mongolo, lui, e mi insegnò a suonare i fiori di Primula come trombette.
        Lo zio mi portava spesso a Tarcento, la domenica, sulla sua bicicletta con un solo pedale che si era costruito quando aveva perso una gamba molti anni prima. Si fermava da Fant a discutere con gli amici e a giocare a biliardo. Con il gesso blu, e io non avevo mai visto il gesso blu, era sempre solo bianco, quello di mio nonno che faceva il sarto. 
Era bello, da Fant. C'era il giardino con la vasca dei pesci rossi, e a me pareva una cosa meravigliosa. 
E si tornava ad Aprato per il lungo viale pieno d'alberi, d'ombra e di belle case, e passando davanti a Candolini si sentiva, forte, l'odore delle vinacce. 
        Ma ancora più bello era il leone di cemento davanti al Consorzio, vicino al Cinema Tarcentino. Quando la nonna andava al Consorzio a comprare la granella per le galline, il leone di cemento era tutto mio, per andarci a cavallo. Passava il tempo, intanto, e venne il giorno d'andare a scuola, e anche lì c'erano i leoni di cemento. Ci sono ancora, e la scuola non c'è più. 
        Si passava per la strade par daûr, che terminava proprio di fianco alla scuola. Ogni giorno c'era qualcosa di nuovo: une magne, due rane nel fosso, la barchetta di legno da far navigare nelle pozzanghere - Beppino aveva un temperino, ma guai dirlo alla sua mamma! - un aeroplano d'argento che passava alto fra le nuvole, e io volevo fare l'aviatore come i miei zii, e poi la scuola di Catechismo a Madonna, e la sera andare a prendere il latte con la gamèle fra migliaia di lucciole. Il mondo era grande, allora. E c'era da divertirsi e ci si divertiva tanto, perché per divertirsi e giocare bastava poco o niente. Lo zio mi portava sul Torre, a valle del ponte, e facevamo le dighe coi sassi. Io mettevo solo quelli piccoli. E sulla Lurana a prendere i pesciolini sotto i sassi, ma io non ci riuscivo mai.
        E c'erano i giorni speciali, quando si andava a Udine con il Tram Bianco che partiva dalla piazza e aveva il rimorchio, e io volevo sempre stare sul rimorchio che aveva i finestrini con i bordi blu scuro e si vedeva tutto diverso, guardando da lì. A Reana il capostazione aveva il cappello blu invece che rosso, se si guardava giusto sopra il bordo del finestrino.
Un giorno arrivò lo zio Walter in divisa e mi disse che si doveva partire per Milano. Troppi pericoli, a Tarcento. Ricordi vaghi, quelli di quel viaggio. A Pordenone una bomba centrò la stazione, e noi eravamo lì dentro. Poi, sopra un camion, e arrivò un aereo a mitragliarci. E poi, a Milano, macerie dappertutto. 
        Sono tornato, poi, tante volte, a Tarcento. Quante, non lo so. Con mio padre e con la Mamma siamo stati un po' dappertutto per l'Italia. Poi ho cominciato io a girare per l'Europa e per il mondo, e forse non ho finito ancora.
Ma il 1976 mi ha lasciato a Tarcento quattro cose, solo quattro cose: la mia lingua, la mia infanzia, la tomba di famiglia al cimitero dove tutti son dentro, e il mio cuore.