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Trieste - Parrocchia della Beata Vergine del Soccorso
 6 Febbraio 2005

Trieste avvolta dalla nebbia

 

  CAMPANE   

 
L'interno della chiesa della Beata Vergine del Soccorso, prima e durante la Messa.

  

CANTI
                   

   

All'Offertorio ed alla fine della Messa, è stato presentato un progetto di solidarietà
per aiutare una missione creata dalle Suore della Divina Provvidenza nel Togo, Africa.

Carità e Missioni

In occasione della canonizzazione di Padre Luigi Scrosoppi è stata promossa una campagna per la raccolta di fondi destinati al potenziamento del Centro medico di Kouvè in Togo. Questo centro è costruito e gestito dalla Congregazione delle Suore della Provvidenza per curare le varie malattie che opprimono il popolo africano. È sorta così una nuova struttura, unica in questo paese, per far fronte anche al nuovo e dilagante problema dell'AIDS.
Il governo togolese, retto da una dittatura, non è in grado di garantire al suo popolo alcun tipo di servizio, anche per le scarse risorse economiche del paese. Ai due diritti fondamentali, "salute" e "istruzione", possono accedere, a pagamento, soltanto pochissimi privilegiati. La grande maggioranza della popolazione, perché povera, non può ne studiare ne curarsi.
Le Suore della Provvidenza, con le varie iniziative avviate in Togo, rappresentano una delle poche risorse impegnate ad assicurare a questa gente i loro fondamentali diritti; ma per agire con efficacia devono poter contare sul "cuore" di coloro che, anche a nome del proprio essere cristiani, decidono di farsi Provvidenza.
A seguito di uno studio fatto sul territorio è stato messo a punto un progetto per il sostegno dei costi del personale locale assunto e gestito dalle Suore a partire dai medici e dagli infermieri, fino al personale docente e di servizio in genere. La nostra attuale cultura missionaria poggia sostanzialmente sullo strumento dell'adozione a distanza di bambini e, in alcuni casi, di ammalati.
Adottare (sostenere) un medico o un maestro, invece, significa garantire un'assistenza professionale a centinaia di persone, specialmente ai bambini, restituendo loro il diritto alla salute e all'istruzione; significa inoltre promuovere la gente del luogo, garantendo la dignità dello stipendio a famiglie attualmente senza prospettive.
Un'altra singolare e importante proposta è l'adozione di una novizia. Se sostenere un medico è un fatto importantissimo, sostenere una ragazza per il periodo dei suoi studi e della sua formazione affinchè possa diventare una suora della Provvidenza, significa garantire continuità all'azione solidale verso questa gente priva di speranza; le suore infatti rappresentano il futuro della Congregazione e quindi di tutte le sue molteplici iniziative di Carità.

TUTTI SIAMO CHIAMATI
S
olo la nostra solidarietà può dar vita alla Carità

Per entrare a far parte di un gruppo potete contattare: Parrocchia tel. 040 301765

La chiesa della Beata Vergine del Soccorso
(Tratto da: Guida alla visita storica e artistica della chiesa,
realizzata in proprio dalla parrocchia Beata Vergine del Soccorso
Piazza Hortis 34124 Trieste - Tel. 040 302488)

Cenni storici
         
L'area su cui oggi sorge la chiesa della Beata Vergine del Soccorso si trovava, in epoca romana, al di fuori delle mura della città. Una strada, in parte lastricata, scendeva dal colle di S. Vito verso la riva del mare, che si spingeva a quel tempo molto più all'interno fino a lambire le attuali piazza Cavana, via Cavana, piazza Hortis e via Torino. Il quartiere viveva delle attività legate al porto, ma aveva anche edifici residenziali. Questa zona, essendo fuori dalla cinta muraria, era usata anche a scopi cimiteriali, come dimostrano parecchie sepolture tardoantiche trovate nelle vicinanze.
     Con il trascorrere dei secoli la fascia di terra compresa fra le pendici del colle e la linea della costa andò aumentando e in età medioevale cominciarono a sorgere, uno accanto all'altro, parecchi edifici religiosi, sia conventuali che assistenziali, cinti da mura e circondati da orti e vigneti. Il rione si raggiungeva uscendo di città dalla porta di Cavana, sormontata da una lugubre torre nella quale venivano tenuti per tre giorni i condannati a morte prima del supplizio. Si attraversava poi un ponticello sui fosso della città, un rigagnolo maleodorante che raccoglieva le acque del monte S. Michele, e si giungeva nel quartiere dei Santi Martiri.

Vediamo gli edifìci religiosi che vi sorgevano seguendo un ordine cronologico di fondazione.
          Il più antico di questi complessi pare essere stata la chiesa dei Santi Martiri, annessa al convento dei monaci Benedettini, sulla quale si hanno documenti sicuri fin dai primi decenni del XII secolo. Era una chiesetta a navata unica, di proporzioni modeste, circa 90 m, ma particolarmente amata dai fedeli perché, secondo la tradizione, sorgeva sul luogo in cui erano stati sepolti i primi martiri cristiani. Attorno al convento, vi era una grande zona coltivata a vigna, a orto e a giardino per le piante medicinali. Il complesso occupava l'area fra le attuali via Ciamician, via Ss. Martiri e via Torino (la via duca d'Aosta fu aperta molti anni dopo attraversando le terre del monastero).
          Nel Settecento (1736) i Benedettini dovettero abbandonare Trieste e il convento fu in seguito occupato dai Padri Armeni Mechitaristi che intitolarono la chiesa a S. Lucia e rimasero a Trieste fino ai primi dell'Ottocento sistemando nel convento il vescovado armeno e il seminario e aprendo una stamperia per volumi in lingue orientali. La chiesa di S.Lucia fu sconsacrata nel 1810 e trasformata in magazzino con osteria e il convento divenne casa di abitazione; nel 1839 gli edifici furono demoliti.

          La chiesa della Madonna del Mare sorgeva nei pressi di una basilica suburbana tardoantica con pavimenti mosaicati e cosparsi di epigrafi di offerenti che costituiscono la testimonianza più antica della vita cristiana a Trieste. Non ci sono elementi sufficienti a documentare una continuità di culto fra la fase paleocristiana e quella medioevale, anche se ciò è probabile. La costruzione medioevale, già nota in documenti del 1298, era a pianta basilicale con tre navate. Distrutta da un incendio il 1° gennaio 1655 durante una notte di bora, fu riedificata, a navata unica, in brevissimo tempo grazie alle offerte dei fedeli. Presso la chiesa avevano sede due confraternite, quella dei facchini (o brighenti) e quella dei contadini; all'intorno si estendeva il cimitero per gli abitanti del quartiere. Accanto alla Madonna del Mare fu costruita nel 1731 la cappella di S. Vincenzo di Paola.
          La chiesa e la cappella furono sconsacrate nel 1784. Al posto della chiesa, distrutta nel 1786, sorse una casa di abitazione (n. 7 di via Madonna del Mare), la cappella, demolita nel 1785, lasciò dapprima spazio a un giardino e attualmente all'autorimessa con entrata in piazzetta S. Lucia.

          La chiesa dell'Annunziata, annessa all'ospedale femminile, sorgeva dove si trova ora la Curia Vescovile (palazzo Vicco). In epoca romana il luogo era occupato da un edificio residenziale con pavimenti mosaicati, probabilmente una villa che si affacciava sul mare. L'ospedale fu gestito dai padri Crociferi dal XIV secolo fino agli inizi del 1600, quando questo ordine abbandonò Trieste. Dal 1627 l'ospedale e la chiesa furono affidati alle cure dei Padri Ospitalieri di S. Giovanni di Dio dell'Ordine dei Fatebenefratelli. La chiesa era molto semplice e aveva un solo altare ligneo dedicato alla Beata Vergine Annunziata. L'ospedale rimase deserto a partire dal 1770 quando le donne che vi erano ricoverate furono trasferite nel nuovo Ospedale Generale e Casa dei Poveri costruito per ordine di Maria Teresa e ultimato nel 1769. La vecchia struttura fu temporaneamente usata come ospedale militare durante le guerre napoleoniche, poi sia l'ospedale che la chiesa furono soppressi da Giuseppe II nel 1786 e furono demoliti nel 1795. Sull'area sorse l'abitazione del commerciante Antonio Vicco nella quale terminò i suoi giorni Giuseppe Fouché duca d'Otranto (1759-1820), per lungo tempo potentissimo e temuto ministro francese di polizia. Dalla metà dell'Ottocento è sede della Curia vescovile.

          L'ospedale maschile fu intitolato a S. Giusto perché sorgeva nei pressi del luogo in cui, secondo la tradizione, fu ritrovato il corpo del Martire. Come quello femminile, fu retto dapprima dai Padri Crociferi; si hanno notizie che lo riguardano risalenti al 1330. Vi si ricoveravano soltanto i malati non colpiti da morbi infettivi; quelli contagiosi erano tenuti in un apposito lazzaretto. La chiesa di S. Bernardino annessa all'ospedale fu edificata probabilmente nel 1500. I Fatebenefratelli assunsero la cura anche di questo ospedale nel 1624, e intrapresero grandi lavori di restauro nel 1672. L'edifìcio fu alzato di un piano e ingrandito e la chiesa fu dotata di due altari uno con la statua di S. Giovanni di Dio che porta sulle spalle un infermo e l'altro con un'immagine della Madonna di Passavia; fu inoltre costruito un campanile munito di due campane. Accanto all'ospedale vi erano orti e un piccolo cimitero. Gli edifìci, soppressi da Giuseppe II, furono acquistati da privati nel 1787, quindi demoliti per far posto all'isolato compreso fra via S. Giorgio, via Torino e via Diaz, che nella forma triangolare rispecchia ancora l'andamento degli edifici e dei muri di confine antichi.

          Il convento dei Capuccini, con la chiesa di S.Apollinare, è il complesso religioso più recente del quartiere dei Ss. Martiri. I Cappuccini giunsero a Trieste nel 1617 e la chiesa fu consacrata il 24 aprile 1623 dal vescovo fra Rinaldo Scarlicchio. Il convento aveva circa 30 celle, la libreria, il refettorio, la cucina e la lavanderia; era circondato da grandi orti e chiuso da mura. La chiesa, la cui entrata si trovava su via Cavana, era molto semplice e spoglia, misurava 24,6 m per 9,5 m e aveva tré altari di legno dedicati a S. Apollinare, alla Vergine Costantinopolitana e al Beato Felice di Cantalice, cappuccino.
          Per ordine sovrano il convento fu soppresso nel 1783 e i frati furono allontanati dalla città l'anno seguente, nonostante le suppliche della popolazio nell’786, adibiti per breve tempo a ricovero per gli orfani e Ospitale degli schiffosi. L'anno dopo furono venduti e abbattuti per costruire le case di abitazione comprese fra via Cavana, via Felice Venezian, via Diaz e via dell'Annunziata.

          Tutti questi edifici - conventi, chiostri, ospedali e chiese circondati da orti e giardini e cinti da mura - furono abbattuti, come abbiamo visto, fra la fine del Settecento e i primi anni dell'Ottocento per decreto sovrano. Le ragioni che portarono alla demolizione di tanti complessi religiosi vanno ricercate nella linea politica dell'imperatore Giuseppe II (1741-1790) volta all'incremento del commercio e del traffico marittimo a Trieste. L'abolizione degli Ordini religiosi e l'utilizzo delle proprietà immobiliari ecclesiastiche metteva infatti a disposizione del Demanio grandi aree fabbricabili da impiegare per scopi mercantili e civili. Una sola chiesa pubblica era ritenuta sufficiente per il quartiere e la scelta, in questo caso, cadde sulla Beata Vergine del Soccorso (S. Antonio Vecchio), perché era la più spaziosa ed era in buone condizioni, essendo stata restaurata di recente. Fu così che l'edificio venne risparmiato.

          La fondazione del convento dei frati Minori Conventuali e della chiesa ora dedicata alla Beata Vergine del Soccorso risale a più di 750 anni fa. Secondo un'antica tradizione, il primo nucleo della chiesa francescana sarebbe da attribuire alla presenza di S.Antonio di Padova che, passando dalla nostra città intorno al 1229, avrebbe sostato e predicato per qualche tempo in questo luogo. Dai documenti d'archivio, risulta che il convento francescano era già in costruzione nel 1229, mentre era vescovo di Trieste Corrado Bojani della Pertica, e che la prima chiesetta, dedicata fin dall'inizio alla Vergine Maria, ma nota ai fedeli come S. Francesco, fu consacrata nel 1234 dal vescovo Givardo. Certo, all'inizio, si trattava di edifici molto modesti, probabilmente una celletta o una cappella con annesso un ospizio per la piccola comunità religiosa dei francescani, ascritti alla Regola dei Minori Conventuali e dipendenti dalla provincia dalmata di S. Girolamo. Gli edifici però, nel giro di pochi anni, si ingrandirono, grazie anche al fatto che nel 1246 tredici famiglie patrizie di Trieste, che si dicevano discendenti dai decurioni romani, fondarono presso questa chiesa una confraternita, detta "dei Nobili" o "delle Tredici Casade". Secondo il rigidissimo statuto, il numero dei confratelli non doveva mai essere superiore a quaranta, gli iscritti dovevano essere discendenti diretti dei fondatori e i membri di queste famiglie potevano contrarre matrimonio soltanto fra di loro; erano vietate anche le unioni con nobili di altre città pur di antica e provata discendenza. Queste famiglie aristocratiche e facoltose contribuirono, nel corso degli anni, con lasciti e donazioni, ad arricchire l'edificio che all'inizio aveva un solo altare di legno intitolato alla Vergine Immacolata.

          In seguito le cronache riportano notizie della costruzione di altri altari: nel 1478 il patrizio Lorenzo de Bonomo fece edificare la cappella dell'Annunziata con l'altare, la famiglia dell'Argento offrì l'altare di S. Francesco, la famiglia de Marchesetti quello della Madonna del Carmine, i de Francol quello dell'Angelo Custode e le tredici nobili casate quello dei Ss. Gioacchino e Francesco; infine nel 1524 Domenico de Baseggio fece alzare l'altare ligneo di S. Antonio dotandolo di una statua del Santo fatta scolpire ad Ancona. Stando a queste notizie la chiesa avrebbe avuto nel 1560 sette altari, di cui quattro o cinque marmorei.
          Sul finire del Quattrocento il convento e la chiesa, che erano stati gravemente danneggiati dai disordini del 1469 (ricordato dalle cronache come l'anno della "distruzione di Trieste" o del "sacomanno") e dalle forti scosse di terremoto degli anni seguenti, furono radicalmente restaurati. Dell'aspetto di questa prima chiesa non sappiamo molto; le scarse notizie ci dicono che era priva di torre campanaria, ma aveva in facciata un semplice campanile a vela con una sola campana per chiamare i frati e i fedeli alle funzioni; sulle pareti esterne, per salvarle dalla dispersione, erano murate alcune lapidi romane trovate nelle vicinanze; all'interno il pavimento era cosparso di lastre tombali di frati, di patrizi triestini e di illustri personaggi quali magistrati, letterati e vescovi; altre tombe trovavano posto sotto alle arcate del chiostro.
          In occasione di un nuovo restauro, nel 1560, mentre era padre guardiano il patrizio triestino fra Giovanni de Jurco, la chiesa fu ampliata e dedicata a S. Francesco d'Assisi. La famiglia de Burlo offrì l'altare marmoreo dell'Immacolata Concezione che fu consacrato dal vescovo Orsino de Bertis il 22 marzo 1603. Il padre guardiano fra Antonio Frigerio restaurò nel 1695 gli affreschi della cappella di S. Antonio raffiguranti i miracoli del Santo e Andrea Civrani fece erigere nella stessa cappella l'altare in marmo, in sostituzione di quello ligneo. I fedeli offrirono la somma necessaria per erigere un bei campanile e dotarlo di due campane. In base agli atti della visita pastorale del vescovo Giovanni Francesco Miller, nel 1693 la chiesa aveva ben sette altari, così elencati: "Crocefisso, Madona Lauretana, Madona dei Carmini, Immacolata Concettione, Annonciata, S. Francesco Serafico, S. Antonio da Padova".
          Per quanto riguarda l'aspetto esterno dell'edificio, un attento esame delle vedute più antiche della città ha rivelato un elemento inedito. Un disegno di Vincenzo Coronelli, datato 1688, ci mostra Trieste vista dal mare, cinta dalle mura e, sulla destra, il quartiere dei Santi Martiri con le chiese e i conventi, tutti chiaramente riconoscibili. Quello che stupisce è l'orientamento della chiesa dei Minoriti (oggi Beata Vergine del Soccorso) che ha la facciata a ovest, un robusto campanile accostato alla parte absidale e un convento di proporzioni modeste, ma non indifferenti, sul lato verso il mare. Data la cura e la minuzia di particolari con cui sono stati rappresentati gli edifici, sembrerebbe da escludere un errore da parte del famoso cartografo veneziano. Dobbiamo concludere che la chiesa avesse un orientamento opposto a quello attuale, il che corrisponderebbe all'assetto più antico e tradizionale che voleva l'abside ad oriente. Una conferma ci viene anche da altre vedute che presentano la stessa situazione. Ci sembra che questo sia un elemento nuovo da inserire nelle vicende del nostro edificio di culto.

     Nel XVII secolo presso la chiesa aveva sede, oltre a quella dei Nobili già ricordata, anche un'altra confraternita intitolata a S. Antonio Taumaturgo, la quale accettava fra i suoi mèmbri sia patrizi che plebei. Il numero dei suoi iscritti era andato via via aumentando soprattutto dopo che nel 1667, per delibera del Consiglio Cittadino, S. Antonio di Padova era stato proclamato conpatrono della città di Trieste assieme ai Santi Martiri locali. L'avvenimento fu celebrato il 26 giugno di quello stesso anno con una solenne processione dalla Cattedrale alla chiesa di S. Francesco, alla quale parteciparono il vescovo, il capitolo, i magistrati, la nobiltà e tutta la cittadinanza. L'elezione fu anche approvata dall'imperatore Leopoldo I con un diploma, rilasciato da Graz il 16 febbraio 1668. La devozione al Santo di Padova aumentò e i fedeli cominciarono a chiamare la chiesa dei Minoriti S. Antonio invece di S. Francesco. Per parecchio tempo le due confraternite convissero pacificamente, ma nel 1766 si verificò un'accesa disputa circa il diritto di precedenza nella processione del Santo e la confraternita di sant'Antonio Taumaturgo abbandonò la chiesa dei francescani con gli stendardi e la statua e si stabilì temporaneamente presso la chiesa del Rosario. Gli iscritti alla confraternita stabilirono poi di fabbricare una propria chiesa, ciò che fecero, con il permesso del vescovo Antonio Ferdinando conte di Herbenstein. Sorse così la chiesa di S. Antonio Taumaturgo nel borgo teresiano e il popolo, per distinguere le due chiese, le denominò con semplicità S. Antonio Vecchio e S. Antonio Nuovo.

     Il convento francescano di Trieste che, come si è detto, fin dalla sua fondazione, aveva fatto parte della provincia di Dalmazia e aveva ricevuto regolarmente le visite del padre provinciale, nel 1668 fu sottomesso alla provincia della Stiria, poiché l'autorità civile di Trieste, per ragioni politiche, aveva negato l'accesso in città al Padre Provinciale della Dalmazia. A questo proposito bisogna ricordare che l'imperatore Leopoldo I, con risoluzione generale, cioè estesa a tutto il territorio, aveva ordinato che nessun capo di convento nei suoi Stati potesse essere un forestiero, ma dovesse essere soltanto un austriaco. Si comprenderà perciò come il gusto d'oltralpe abbia influenzato sensibilmente gli interventi artistici nell'edificio e come i legami con la chiesa di Graz si siano fatti più stretti.
Nel 1761 si iniziarono estese opere di ricostruzione, che si protrassero per molti anni. In questo periodo, a nostro avviso, l'orientamento dell'edificio fu modificato. Al termine dei lavori la chiesa venne riconsacrata e dedicata alla Beata Vergine del Soccorso, a S. Francesco e S. Antonio, come ricorda l'epigrafe latina nel cartiglio posto in facciata sopra alla porta centrale.

     Nel corso di questo radicale restauro le antiche lapidi sepolcrali furono rimosse e andarono quasi tutte disperse; furono conservati solo alcuni degli altari marmorei. Il convento, addossato alla chiesa, si trasformò in un ampio edificio a due piani con tre ali che racchiudevano un chiostro porticato, coltivato a giardino, con pozzo centrale. Oltre alle celle per circa 25 frati, esso ospitava: la cancelleria, l'infermeria, la foresteria, il refettorio, la cucina, la lavanderia, la stalla e la rimessa e, soprattutto, una splendida biblioteca con più di 5000 volumi, fra i quali manoscritti preziosi e rare edizioni. Tutto il complesso era circondato da orti e cinto da un alto muro e occupava l'arca compresa fra piazzetta S. Lucia, via dell'Annunziata, via Diaz e via S. Giorgio chiudendo la via di Cavana che terminava contro le mura del convento, sul lato destro della chiesa, dove era situata l'unica porta di accesso alla clausura, detta "porta battitora"; un'altra entrata, che portava agli orti, era lungo la riva del mare. La chiesa aveva una porta laterale, a destra, che si apriva sul chiostro e una cantoria alla quale i frati potevano accedere direttamente dal piano superiore del convento.

Fra il 1783 e il 1785, per decreto sovrano, gli ordini religiosi non assistenziali furono aboliti. Di conseguenza l'archivio secolare, i manoscritti e i volumi della biblioteca andarono quasi tutti perduti. Uno storico del secolo scorso, don Pietro Tomasin, non sa nascondere l'angoscia nel riportare la notizia: "Colla soppressione quasi tutto l'archivio di S. Francesco andò perduto: i libri della biblioteca, preziosissimi, si gettarono alla rinfusa nella soffitta della canonica di S. Antonio Nuovo, e tutti decimati in gran parte e stracciati dalle serve di quei curati, miseramente perirono. Chi vide i residui può dare testimonianza della stupenda collezione di volumi che devono aver posseduto i nostri Minoriti. Una sola opera potè trovarsi completa da chi scrive queste memorie, ora a sue mani..... ".
 
     Il convento, adibito temporaneamente a sede della cancelleria vescovile, fu parzialmente demolito nel 1796 per prolungare la via di Cavana.
Durante il periodo della dominazione francese (1809-1813) il generale Marmont nominò il barone Angelo Calafati Intendente delle Province dell'Istria. Egli andò ad abitare nel palazzo Biserini (ora sede della Biblioteca Civica) ed ebbe una predilezione speciale per la chiesa della Beata Vegine del Soccorso. Nel giro di pochi mesi fece lastricare il pavimento, "dopo levate le lapidi sepolcrali e riempite di terra le sepolture", come riferisce il contemporaneo Mainati, fece inoltre dipingere le pareti a damasco verde (!), erigere un fonte battesimale in marmo pregiato e aggiungere un orologio al campanile. Ritenendo che i resti del convento ancora in piedi offendessero la vista - e in effetti erano pericolanti e malamente chiusi da assi di legno - li fece abbattere per far posto a una piazza alberata che chiamò Piazza Lützen in ricordo della vittoria riportata dai francesi contro i prussiani nel 1811. Nei progetti di abbellimento, che Calafati affidò all'ingegner Pietro Nobile, erano previsti due portici di dieci arcate decorati da statue allegoriche e bassorilievi commemorativi delle vittorie e dei fasti napoleonici. Ma mancarono sia i fondi che il tempo, così la piazza rimase con un contorno di alberi e al centro il vecchio pozzo del convento. Il 13 ottobre 1813 il governo austriaco riprese possesso di Trieste e prontamente il Comune cambiò nome alla piazza che divenne Piazza Lipsia, in memoria della "Vittoria delle Nazioni" ottenuta dagli eserciti confederati sulle truppe di Napoleone (ottobre 1813).
Nel 1865 il Comune decise di trasformare l'area in parco pubblico; la fece recintare con muretti e balaustre di ferro, la ornò di una elegante vasca con rocce, piante e zampilli d'acqua e piantò parecchi alberi ornamentali, molti dei quali, più che centenari, prosperano ancora.

     La chiesa dei Francescani, oggi Beata Vergine del Soccorso, rimase così l'unica di tutto il quartiere aperta al culto. Per qualche tempo fu filiale della parrocchia di Santa Maria Maggiore e divenne parrocchia essa stessa il 1° gennaio 1847, con la cura di 4000 anime che, prima della fine dell'Ottocento, erano già più che raddoppiate. Aveva allora cinque altari: il Maggiore e quelli della Beata Vergine, del Crocifìsso, degli Angeli Custodi e di Sant'Antonio Taumaturgo. L'organo era ancora quello antico, donato dalla famiglia Petazzi, il campanile aveva solo tre campane, ma nel 1850 il parroco Antonio Hrovatin ne fece fondere una quarta.

     La chiesa fu la prima a Trieste nella quale si praticò l'esercizio della Via Crucis ed ebbe molti benefattori insigni fra i quali Don Carlos e dona Maria Teresa, conti de Molina infanti di Spagna, esuli a Trieste, che introdussero la pratica del mese Mariano e l'arciduca Ferdinando Massimiliano, fratello dell'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe, che abitò per parecchi anni nella villa Lazarovich (in via Tigor). Il quartiere dei Santi Martiri si stava rapidamente trasformando: sul colle le vigne e le casette rurali lasciavano il posto a ville e residenze di lusso, le antiche stradette tortuose venivano allargate e raddrizzate; l'interramento delle rive spostava la linea di costa da via Diaz verso il mare guadagnando altri spazi alle costruzioni. La chiesa, al centro di questo quartiere ricco e in espansione, ebbe un numero sempre crescente di fedeli e godette di molti privilegi essendo di patronato imperiale. Fu così che si rese necessario un nuovo ampliamento affidato, nel 1863, all'architetto Giuseppe de Bernardi. Dai progetti risulta che la facciata settecentesca e i muri perimetrali non furono toccati e che gli interventi interessarono soltanto la zona absidale. Lo spazio per i fedeli fu aumentato invadendo il presbiterio il quale a sua volta andò ad occupare la vecchia sagrestia e la base del campanile; fu perciò necessario costruire nuovi ambienti per la sagrestia, abbattere il campanile sul lato della piazza e costruirne uno nuovo, quello di gusto veneto, alto 28 metri che si erge ora sul fianco sinistro dell'edificio.
Il vescovo monsignor Bartolomeo Legat diede la benedizione alla chiesa rinnovata il 16 luglio 1866, festa della Madonna del Carmelo.
Recentemente la chiesa della Beata Vergine del Soccorso è stata oggetto di restauri pazienti e accurati, grazie all'interessamento iniziale del parroco don Vittorio Cian (tetto ed esterni), seguito da don Luigi Lenardon (impianti luce e amplificatori), per terminare quindi con i restauri dell'interno realizzati da don Carlo Gamberoni. I lavori sono stati portati a termine anche grazie alle generose elargizioni dei fedeli.

La chiesa della Beata Vergine del Soccorso, ora.
    
La facciata a capanna è elegante e lineare, ritmata da quattro paraste che terminano sotto il timpano sottolineato da un imponente cornicione; la interrompono tre porte, sovrastate da altrettanti fìnestroni; sopra all'entrata centrale è posto il cartiglio con l'epigrafe dedicatoria del 1774. Il fianco destro della chiesa, che un tempo aderiva all'edificio conventuale, conserva ancora le porte laterali, una sola della quali immette tuttora all'interno della chiesa. Sul fianco sinistro si innalza l'ottocentesco campanile, la cui base resta celata dai locali della sagrestia; poco più avanti sul muro di uno scampolo di giardino, ultimo avanzo degli orti dei frati, è inserito un fontanone pubblico un tempo alimentato dall'acquedotto teresiano di S. Giovanni e oggi asciutto e in tristi condizioni di abbandono.
La pianta della chiesa, a navata unica, è leggermente prospettica; le pareti longitudinali cioè convergono verso l'abside. Si tratta di un espediente tecnico usato dagli architetti per produrre nell'osservatore un'impressione di spazialità dell'ambiente diversa da quella reale, creando un'illusione ottica di maggior profondità.
L'interno della chiesa, grazie ai recenti restauri, ha riacquistato la luminosità e l'armonia di un tempo. Alte lesene in finto marmo giallo venato di scuro, coronate da capitelli, scandiscono gli spazi delle pareti e affiancano i nicchioni, ricavati nello spessore dei muri, che contengono i sei altari laterali. I 14 rilievi della Via Crucis, in terracotta, sono stati realizzati nel 1953 dall'artista triestino Carlo Sbisà (1899 - 1964). Si ha notizia di una serie di quadri con le stazioni della "via dolorosa" fatti eseguire a Venezia nel 1763, dei quali però si è perduta ogni traccia.