biel lant a Messe a ...

Cividale del Friuli, 1 Agosto 2004


Cividale del Friuli (UD)
CAP:
33043 - Altitudine (s.l.m.): 135 m - Abitanti: 11.387 - Superficie: 50,57 Kmq

Arroccata sulle rive del fiume Natisone, Cividale del Friuli ha sviluppato e mantenuto intatta nei secoli un'impronta nobile e austera, degna di una capitale dalla grande importanza strategica, segnata e arricchita dal passaggio di popoli stranieri. La scelta del luogo per la costruzione di un "Castrum" fu motivata da ragioni strategiche: si trovava sul percorso che fin dalla preistoria, snodandosi lungo la sponda sinistra del Natisone, congiungeva i territori alpini e transalpini alla pianura.
"Forum Julii" (Cividale) sorse dunque, attorno al 50 a. C., a difesa delle strade di accesso ad Aquileia. Dell'antico sistema difensivo cividalese attualmente restano le costruzioni di epoca patriarcale costituite dalle mura con torrione rotondo e torre d'angolo sul Natisone di Borgo S. Pietro, tratti della cinta muraria veneziana sul versante nord dell'abitato e la cinta difensiva nella zona Est. Durante il restauro di Castello Canussio sono stati riportati alla luce i resti delle mura romane di Cividale e di due torri romane. Cividale conserva altresì moltissime testimonianze artistiche dei tre periodi più importanti della sua storia: quello romano, quello longobardo (nel 568 d.C. è occupata dai Longobardi, guidati dal re Alboino, che vi fonda il primo dei 35 ducati italiani con a capo il nipote Gisulfo) e quello patriarcale (dal sec. VIII al XIV fu sede del patriarcato di Aquileia). (Tratto da www.turismo.fvg.it/)

Messa per la festa annuale degli emigranti organizzata dall'Ente Friuli nel Mondo

 vedere anche il servizio >>>


 CAMPANE

  

 princìpi de messe e cjants
         

 la predicje del Vescul di Udin

 leturis e prejeris in furlan
         



 finâl de messe

 une voglade viars les autoritâts e viars la int presìnt in tal Domo di Cividât

 un salût alis siorutis che 'an volut jessi fotografadis

 vedere anche il servizio >>>

CIVIDALE DEL FRIULI - Arte e Cultura

Vasta e complessa è la storia del Duomo che, nelle sue linee compositive attuali, pur con notevoli e sostanziali modifiche subite nel corso dei secoli, rispecchia la costruzione eretta a partire dalla metà del secolo XV. Nel 1448, infatti, un grave terremoto aveva completamente distrutto la precedente costruzione che sullo stesso luogo doveva esistere fin dal 737, da quando cioè il Patriarca di Aquileia, Callisto, trasferitosi da Cormons a Cividale, come tramanda Paolo Diacono, aveva fatto quivi edificare una chiesa dedicata alla Vergine e, accanto ad essa, quella dedicata al Battista, contenente il battistero. L'incarico della ricostruzione della chiesa venne affidato a Erardo da Villaco (che aveva da poco portato a termine il ponte sul Natisone) ed alla morte di questi (1453) a Bartolomeo delle Cisterne il quale, dopo aver progettato una chiesa di tipo gotico-internazionale con l'interno a tre navate divise tra loro da robusti pilastri capaci di sostenere alte arcate ogivali, non riuscì a concludere l'impresa (morì nel 1480) ma eresse almeno la parte inferiore della facciata per la quale, nel 1465, ordinò a Venezia, a maestro Jacopo Veneziano, il bel portale maggiore che l'adorna.
La facciata fu ultimata da Pietro Solari detto Lombardo (1435-1515), chiamato a Cividale nel 1502. Meno decisivo fu il suo intervento per quanto riguarda l'interno del duomo (da lui comunque diviso in navate). Infatti nel 1766 Giorgio Massari assunse l'incarico di ristrutturare l'interno e ne stese il disegno. Alla morte del Massari, avvenuta nello stesso anno, spettò al suo allievo e collaboratore Bernardino Maccaruzzi por mano al lavoro, a partire dal 1767, realizzando cinque altari, costruendo la volta a botte nella navata centrale mentre, per l'avversa decisione dei canonici, non poté attuare completamente nelle navate laterali il progetto originale che prevedeva la ricostruzione a tutto sesto dei gotici archi divisori delle campate, sostenuti alle pareti con gruppi di pilastri rinascimentali.
All'interno la chiesa conserva alcune interessanti opere d'arte: un Vesperbild del XV secolo riconducibile a scuola della Germania sud orientale (statua in pietra arenaria dipinta raffigurante la Pietà, detta in tedesco "Vesperbild" in quanto immagine sacra intorno alla quale ci si riuniva di sera a pregare), una Madonna in trono e Santi del dalmata Matteo Ponzone (Matej Poncun, 1617), una pala di Antonio Grimani (1619), due tele di Palma il Giovane (Lapidazione di S. Stefano e Ultima Cena, 1606), una bella pala con l'Annunciazione eseguita dal friulano Pomponio Amalteo nel 1546 ed inoltre dipinti a fresco e ad olio di Giuseppe Diziani (1760-1771) in sagrestia.
Pure degni di nota sono, nella navata sinistra, il Monumento funebre del Patriarca Nicolò Donato dovuto al lombardo Giovanni Antonio di Bernardino da Carona (1513), uno dei rarissimi esempi di monumenti sepolcrali del Rinascimento nella regione, ed un Crocifisso ligneo di grande dimensione (secolo XVIII).
Sul muro interno della facciata, in alto, è collocato il Monumento equestre di Marcantonio da Manzano, nobile cividalese che cadde il 2 luglio 1671 durante la guerra di Gradisca (o degli Uscocchi). È scultura in legno laccato di bianco, posta in una nicchia entro un altarolo in marmo, datata 1621: viene attribuita all'udinese Girolamo Paleario.
L'altare maggiore contiene uno dei gioielli dell'arte orafa italiana, la pala d'argento di Pellegrino II, tanto famosa da essere stata esposta, nel 1953, a Parigi, nella "Mostra dell'arte del medioevo". Una scritta ed una epigrafe, entrambe a punzone, ci fanno sapere che fu eseguita durante il patriarcato di Pellegrino II (1195-1202) che, essendo cividalese di nascita, volle farne dono alla sua città. È un lavoro imponente (m. 1,02 x 2,03) in spessa lamina d'argento sbalzata e dorata a fuoco, fissata su una struttura lignea. È costituita da quattro parti armonicamente fuse tra di loro: il trittico centrale, due scomparti laterali ed una cornice che racchiude l'intera composizione.
Nel trittico centrale, tra arcatelle separate da tenui colonnine, sono rappresentati la Vergine Maria in trono che tiene sulle ginocchia il Bambino benedicente ed i Ss. Michele e Gabriele. Negli scomparti laterali, figure di Santi assai venerati in tutto il Friuli. Nella cornice, in basso, il ritratto di Pellegrino II genuflesso. Ignoto è il nome degli autori di questo capolavoro di oreficeria: lo stile veneto bizantineggiante fa pensare ad artisti veneti e forse addirittura cividalesi o comunque friulani.
Nella navata destra, una piccola porta introduce nel Museo Cristiano il cui ambiente fu costruito nel 1946: in esso trovano collocazione affreschi (XI-XV secolo) strappati dal Tempietto Longobardo e montati su telaio; lastre e frammenti di decorazioni marmoree, la cattedra patriarcale (opera dell'XI secolo, composta con frammenti erratici di marmo greco antico, di epoche e provenienze diverse: trono sul quale ventisei patriarchi, dal 1077 al 1412, ricevettero la solenne investitura) e due tra i maggiori monumenti della scultura altomedioevale italiana: l'Ara di Ratchis e il Battistero di Callisto.

L'Altare di Ratchis è certamente la scultura più conosciuta di Cividale ed una delle più note di tutto il periodo alto medioevale. È un parallelepipedo in pietra carsica adorno di bassorilievi su quattro lati: fu donato, come si rileva da una scritta posta sul bordo superiore, ad una chiesa di S. Giovanni di Cividale (probabilmente S. Giovanni in Valle) da Ratchis, figlio di Pemmone, duca del Friuli dal 739 al 744, anno in cui, morto Liutprando, divenne re d'Italia.
L'altare in epoca imprecisata passò nel battistero di S. Giovanni ed in seguito venne portato nella chiesa di S. Martino di Cividale da dove recentemente è stato trasferito al Museo Cristiano. È opera bellissima e di notevole levatura artistica, basilare anzi per la comprensione di quell'arte che da taluni viene chiamata longobarda o barbarica e da altri più semplicemente alto medioevale.
Nella facciata anteriore è scolpita la scena della Maiestas Domini, cioè del Cristo in Maestà, in atto di insegnare, con il rotulo nella sinistra, fiancheggiato da due cherubini e chiuso nella mistica mandorla sostenuta da quattro angeli in volo; nella faccia laterale sinistra è rappresentata la Visitazione, in quella destra l'Adorazione dei Magi, nella posteriore una semplice cornice a treccia racchiude due croci con bracci riccamente ornati.

Quando Callisto, alla corte di Sereno, venne eletto patriarca (730-756), trasferì la sede patriarcale da Cormons a Cividale (737) e si diede con fervore alla costruzione di monumenti che potessero abbellire la città. Nacquero così, sull'area dell'attuale duomo, la Chiesa patriarcale, il palazzo e probabilmente altri edifici che col tempo andarono distrutti. Di tutto questo complesso oggi non rimangono che il Pozzo di Callisto ed il Battistero di Callisto, modesta opera la prima, eccezionale pezzo d'arte, invece, il secondo. All''inizio il fonte battesimale fu allogato nel Battistero, ma nel Quattrocento, quando il Duomo fu ampliato e il battistero dstrutto, passò nella chiesetta di S. Giovanni Battista e quando quest'ultima fu demolita per far posto al campanile del Duomo, fu trasportato all'interno del Duomo stesso e posto entro il nicchione che si apre nella navata destra (1645). Ivi rimase fino al 1940, allorché, per timore di eventuali danni, fu smontato e portato al sicuro. Nel 1946 fu infine collocato nel luogo in cui ora si vede e ricomposto in maniera tale da riprendere, per quanto possibile, il presunto aspetto originale, con l'integrazione di lastre marmoree per le parti mancanti e dei gradoni all'interno della vasca: tutti i pezzi aggiunti, ricavati da antichi marmi greci, portano incisa la data MCMXLVI ad evitare ogni possibile confusione. Non è stata invece rifatta la copertura, non essendo rimasta alcuna documentazione relativa alla sua condizione originaria.

Il Battistero si presenta nell'insieme elegante, agile e ritmicamente armonioso, per il felice rapporto ottenuto fra le due parti di cui si compone. Quella inferiore, ottagonale, a forma di vasca con tre gradini discendenti, serviva per il battesimo ad immersione.
Il parapetto presenta soltanto due facce scolpite all'esterno, denominate l'una Paliotto di Sigvaldo e l'altra Lastra di S. Paolino, mentre all'interno è del tutto privo di decorazioni. Dal parapetto si alzano otto colonnine (probabilmente di spoglio), di marmo greco, con capitelli corinzi che sostengono il tegurio ad archetti, recante su sette delle otto facce interessanti decorazioni a bassorilievo ed iscrizioni che ricordano il patriarca Callisto e le sue benemerenze.

Di eccezionale valore il Tesoro del Duomo che consta di alcune oreficerie veramente eccezionali per fattura e preziosità: da ricordare - oltre alla grande Croce di Pellegrino II del secolo XIII-XIV, esposta in Duomo - alcuni pezzi visibili solo su richiesta, come il calice con patena di arte ottoniana della prima metà del secolo XI, in argento ricoperto da uno spesso strato d'oro, con le figure degli Evangelisti incise a bulino sul piede svasato del calice; la coperta dell'Evangelario dell'Epifania, in argento sbalzato e dorato, con la raffigurazione della Crocifissione, opera di bottega cividalese del XIII secolo; il busto reliquiario di S. Donato, in argento dorato e sbalzato, smalti e paste vitree, lavoro insigne dell'orefice Donadino di Brugnone, eseguito nel 1374 per custodire il cranio di S. Donato protettore di Cividale, elegante e sontuoso prodotto di oreficeria già elencato tra i capolavori della città dalle monache cividalesi del Cinquecento; una singolare pisside in noce di cocco, entro ingabbiatura d'argento, con rivestimento interno in oro sbalzato, di bottega tedesca del XIV secolo; una pace del XV secolo in avorio, prodotto d'arte fiamminga, ed un'altra pace, eseguita per conto del patriarca Grimani nella maniera dell'orefice Tiziano Aspetti alla metà del secolo XVI, in argento e rame dorati, oro e pietre preziose, con al centro una formella in argento dorato con la Deposizione, un cammeo in alabastro con la testa del Redentore nella cimasa e, nello zoccolo, un più antico cammeo in sardonica orientale traslucida del V secolo raffigurante Daniele orante vestito alla persiana tra i leoni.

Nella grande piazza che fiancheggia il duomo, si ammirano il cinquecentesco palazzo de Nordis, già sede museale, ora in fase di ristrutturazione, e il palazzo dei Provveditori, costruzione imponente che chiude uno dei lati della piazza: nato da un progetto di Andrea Palladio, fu co struito tra il 1565 ed il 1596.
Si sviluppa su due piani, divisi in senso orizzontale da una tenue cornice marcapiano: nella parte inferiore, nove arcate, poggianti su robusti e grevi pilastri, immettono nel sottoportico. In quella superiore, la parte centrale porta tre ampie finestre centinate, mentre quelle che le affiancano in doppia serie sono rettangolari e separate l'una dall'altra da paraste. Tra le varie sculture e lapidi inserite nella facciata, vanno ricordati i busti dei Provveditori Santo Contarini (1589) e Andrea Pisano (1609).

Dal 1990 il palazzo è sede del Museo Archeologico Nazionale, la cui fama è affidata soprattutto ai notevoli reperti longobardi in esso custoditi ed al nutrito fondo di preziosissimi codici miniati.
Nelle sette sale del pianterreno sono esposti soprattutto frammenti di cippi funerari e di are, lacerti musivi, materiale lapideo proveniente da Cividale e da altre località friulane, dall'Istria e dalla Dalmazia, risalenti al periodo romano e longobardo e, in minor misura, a quello romanico, gotico e rinascimentale.
Tra i pezzi di maggior suggestione, nella sala II alcuni mosaici pavimentali con eleganti motivi geometrici (secolo I d.C.) ed un grande mosaico a lesene bianche e nere con la raffigurazione di una divinità acquatica variamente identificata in Oceano oppure nel fiume Natisone.
Nel cortile interno del Museo materiali lapidei vari dal XII al XVII secolo, con una interessante serie di iscrizioni ebraiche.
Nel piano nobile è esposto, in eleganti vetrine in sette sale, prezioso materiale relativo all'epoca longobarda, proveniente da Cividale o da altre località del Friuli.
Nella sala A quattordici vetrine con corredi funebri (spade, fibule, collane, monete, braccialetti, croci, ecc.). Particolarmente importante, nella vetrina 10, il corredo della tomba del così detto "guerrieroorefice", con strumenti di lavoro unici nel loro genere (secolo VII) e, nella vetrina 1, un codice membranaceo del IX secolo con la trascrizione della Historia Langobardorum di Paolo Diacono.
Nella sala B sette vetrine soprattutto con armi di offesa e finimenti per cavallo; nella sala C otto vetrine con oggetti femminili (collane in pasta vitrea, pettini in osso) e altro, tra cui il così detto dischetto del Cavaliere, in lamina d'oro, con decorazione a intreccio nel bordo e bassorilievo con cavaliere armato al centro, preziosissima oreficeria del secolo XVII proveniente dagli scavi della necropoli di Cella di Cividale; nella sala D è collocato il celebre sarcofago di Gisulfo, trovato nel 1874 in piazza Paolo Diacono, contenente oltre ai resti del ducato longobardo i preziosi oggetti d'oro ora esposti in una bacheca: una croce d'oro con teste punzonate (volti a pera con chiome fluenti) alternate a nove gemme incastonate, uno degli oggetti più raffinati dell'oreficeria longobarda, preziosissimo per il materiale adoperato e per la perfezione del lavoro; un anello d'oro; una fibula a passante, splendida, con un grosso coloratissimo uccello ed uno stilizzato albero in smalto inseriti entro un riquadro aureo.
Nella sala E venti vetrine con materiali soprattutto provenienti dalla ricchissima necropoli di S. Stefano in Pertica presso Cividale (croci, anche eccezionali per bellezza e fattura, armi, fibule, placche, guarnizioni, ecc., esposte nelle bacheche 1-8 e 15) ma anche da altre località, quali Orsaria, Azzano di Ipplis, S. Mauro e Firmano di Premariacco, Romans d'Isonzo, S. Salvatore di Maiano, Andrazza di Forni di Sopra, Erto, ecc.
Nella sala F otto vetrine ancora con fibule e gioielli in oro, argento, pietre dure (croci, collane, ecc.), che insieme con quanto esposto nelle precedenti sale concorre a definire un quadro sufficientemente preciso della quotidiana vita della gente cividalese e friulana nei secoli VI-VIII e permette di ricostruire fin nei minimi particolari i molti aspetti della civiltà longobarda. È materiale reperito nel corso di organici scavi effettuati dall'inizio del secolo XIX fino ai nostri giorni.
Nella sala G tre vetrine con testimonianze archeologiche varie ed altre tre con capolavori della miniatura e dell'oreficeria. Nella vetrina 4 è esposto il Salterio di S. Elisabetta, codice di rara bellezza, miniato in maniera accuratissima tra il 1200 e il 1271 da almeno quattro artisti (c'è una qualche diversità di esecuzione) appartenenti alla scuola turingiosassone, in cui confluiscono caratteri propri della miniatura francese, bizantina e anche inglese dei secoli XII e XIII. Fu eseguito per le nozze di Sofia di Sassonia con Ermanno, langravio (cioè conte e feudatario) di Turingia, padre di Lodovico, sposo a sua volta di Elisabetta d'Ungheria, poi divenuta santa.

Secondo un'antica tradizione, che gli studiosi pensano possa anche aver fondamento, S. Elisabetta, che era nipote del patriarca di Aquileia Bertoldo di Andechs, lo donò nel 1220 al capitolo del duomo di Cividale. Eccezionali, all'inizio del codice, le miniature del calendario, con gustose scenette realistiche a illustrazione dei segni dello Zodiaco e con relative scene di santi o festività liturgiche.
Nella vetrina 5 è esposto l'Evangelario di S. Marco, antichissimo, della fine del V o dell'inizio del VI secolo, con scrittura onciale. La leggenda vuole sia stato scritto addirittura dall'evangelista Marco, così che tutti i grandi personaggi venuti in Friuli, a cominciare da Carlo Magno, pare abbiano voluto apporvi la loro firma (ma si pensa che le più antiche siano apocrife). Le firme illustri, in latino, tedesco e slavo, sono comunque molto numerose. Il codice, già in possesso del monastero di S. Giovanni in Tuba al Timavo, passò dapprima al monastero della Beligna, nel IX secolo alla basilica di Aquileia e, dopo il 1418, al capitolo di Cividale.
Nella vetrina 6, infine, è esposta la celebre Pace del Duca Orso, in avorio inciso e argento sbalzato e dorato, uno dei più significativi oggetti di oreficeria longobarda, eseguito circa l'anno 800. Forse in origine era la copertina di un evangelario, trasformata in seguito in "Pace" (cioè lastra che veniva offerta durante le cerimonie al bacio dei fedeli) e come tale adoperata fino al XVI secolo. Prende il nome dalla scritta "Ursus dux", che compare due volte nella croce; il duca Orso si crede essere stato duca di Ceneda, nipote del duca Pemmone di Cividale e cugino del re dei Longobardi Ratchis. La parte in avorio reca il Cristo crocifisso con ai lati della croce la Madonna e Longino, Giovanni e il portaspugna. In alto, entro patere, le raffigurazioni simboliche e personificate del sole e della luna. Chiude la scena una cornicetta con motivi di foglie d'acanto. La lamina d'argento sbalzato, che viene ritenuta più antica, presenta tra fini motivi ornamentali una serie di rosoni ed è impreziosita da grosse gemme incastonate. Molti altri sono i codici miniati che il Museo possiede e che verranno esposti nel vicino cinquecentesco Palazzo de Nordis, che per un secolo ha ospitato il Museo e che attualmente è sottoposto a lavori di ristrutturazione che lo trasformeranno in seconda sede museale.
Tra i codici miniati non esposti, vanno ricordati almeno il Salterio di Egberto, con trentanove miniature a piena pagina e ben 155 piccole iniziali miniate, appartenenti alla scuola di Reichenau, il più importante centro della miniatura ottoniana della seconda metà del secolo X; il Breviario Francescano del XIV secolo, con elegantissime miniature della scuola di Jean Pucelle, francese; un Antifonario miniato dall'udinese Giovanni de Cramariis alla fine del XV secolo; lo splendido Pontificale Grimani, del XVI secolo, con miniature di Francesco Salviati.
Verranno pure esposti numerosi pregevoli dipinti: tra essi una piacevole tavoletta con l'Adorazione dei Magi, datata 1402, già nel Tempietto Longobardo, attribuita allo sconosciuto pittore Gubertino da Cividale; due dipinti di Pellegrino da S. Daniele, un trittico del 1501 e l'imponente pala dei Battuti, eseguita tra il 1525 ed il 1529 per la chiesa di S. Maria dei Battuti, capolavoro del pittore: nella parte centrale, suggestiva veduta di Cividale; una tela di Giovanni Antonio Pordenone raffigurante l'incontro di Cristo con la Maddalena (Noli me tangere, ca. 1534), eccezionale per gli impasti cromatici; dipinti di Paolo Veronese (Madonna con Bambino e S. Rocco, 1584), Pietro Damini, Bernardino Blaceo (S. Valentino e S. Giacomo, 1569), Francesco Zugno, Giuseppe Diziani, ecc. Saranno visibili anche sculture lignee dorate e dipinte: tra esse le due statue lignee della Madonna e di S. Giovanni, già nel Tempietto Longobardo, che costituiscono un unicum in Friuli per datazione (XII secolo) e qualità di esecuzione.
Da ultimo, preziose oreficerie dal XIV al XVIII secolo ed il più celebre ricamo del Friuli, il velo della Beata Benvenuta Boiani, del XIV secolo, che la leggenda vuole sia stato ricamato di notte, alla luce della luna e con l'aiuto degli angeli, dalla stessa Beata, monaca domenicana e fondatrice del convento di Cella a Cividale. È un ricamo in bianco, su tela di lino sottilissima (che misura ben metri 4,76 x 1,55) raffigurante una Crocifissione, un'Annunciazione e figure di Santi. In origine era usato come superfrontale e, posto sopra l'altare in luogo della pala, per le sue trasparenze produceva l'effetto di una vetrata. Ha subìto un'accurato restauro alcuni anni fa ed è stato rintelato in modo tale da non essere purtroppo del tutto godibile se non in una "finestrella".

Tempietto Longobardo.
Dalla piazza del Duomo, con una breve passeggiata attraverso una delle parti più suggestive di Cividale, si giunge al Tempietto Longobardo, monumento di grande prestigio in virtù dell'eccezionalità delle opere d'arte in esso custodite, tanto che per molti il nome stesso della città idealmente si identifica con quello del Tempietto Longobardo.
Eppure ancora fitto è il mistero che circonda il piccolo edificio. Ne sono ignote sia l'originaria destinazione, che la struttura primitiva e le maestranze che vi operarono. Il nome stesso di "Tempietto Longobardo" è improprio, giacché tempietto non è e l'appellativo "longobardo" va riferito all'epoca della sua costruzione, non già all'appartenenza dei suoi artefici a quel mondo artistico. Improprio, d'altra parte, è anche il titolo di "oratorio di Santa Maria in Valle", acquisito allorché l'edificio divenne il fulcro del convento benedettino di Santa Maria in Valle.
Cosa certa è, invece, che costruzione e decorazione in stucco e a fresco furono eseguite poco dopo la metà dell'VIII secolo, verso il 760. Nei primi anni del XVIII secolo il Tempietto cessò dalla sua funzione di cappella viva del monastero e fu quindi adibito a sala capitolare del convento stesso; alla fine dell'Ottocento le monache donarono il Tempietto alla comunità di Cividale (1893) ed in tale occasione fecero costruire il passaggio pensile, sul greto del Natisone, che tuttora porta dalla piazzetta di S. Biagio all'ingresso dell'edificio, in modo che i visitatori per accedervi non fossero obbligati a passare attraverso gli ambienti di clausura.
Nel corso dei secoli il Tempietto fu più volte "ristrutturato": ne fanno fede soprattutto gli affreschi che ne decorano (o ne decoravano, visto che molti di essi sono stati recentemente strappati ed esposti nel Museo Cristiano e nel Museo archeologico) le pareti: affreschi che vanno dall'XI alla fine del XIV secolo circa.
L'edificio consta di un corpo centrale (esternamente a pianta quadrata, a debole croce all'interno) e del presbiterio a tre absidi, di cui la centrale più ampia.
La volta è a crociera nell'aula, a botte nelle absidiole. Architravi monolitici di età romana sostenuti da colonne binate di spoglio con capitelli corinzi separano le navatelle, mentre un'iconostasi con plutei lisci delimita la zona dell'aula dal presbiterio.
È nella parete d'ingresso (quella occidentale) che si può, sebbene parzialmente, ammirare l'originaria decorazione del Tempietto: di essa infatti sono rimasti in buono stato di conservazione gli eccezionali, celeberrimi stucchi e qualche affresco purtroppo abraso e pertanto malamente leggibile, tale tuttavia da poter essere ancora valutato a sufficienza.
La decorazione a stucco (composto di gesso, calce e polvere di marmo) si svolge su due registri. In quello superiore due fasce orizzontali, lavorate con motivo a stilizzate rosette profondamente incise, con cavità al centro un tempo riempita con pasta vitrea (solo in alcune visibile), delimitano uno spazio nel quale trovano posto le sei Sante in altorilievo addossate al muro, affiancate in gruppi ternari, a destra e a sinistra di una monofora cieca, adorna di un archivolto, anch'esso in stucco con finissimo motivo simile ad una trina, poggiante su due colonne sormontate da capitelli corinzi.
Nel registro inferiore una mirabile fascia lavorata a giorno corre con funzione decorativa attorno alla lunetta del Cristo Logos in affresco. Elemento principale dell'ornamento è il bel tralcio di vite a spirale con grappoli e pampini racchiuso entro doppia cornice terminante con bordi a ovuli e sferette di vetro verde (nel la maggior parte non più esistenti) al centro.
Negli ultimi restauri sono stati rinvenuti ulteriori frammenti di stucco, ciò che ha dato credibilità all'ipotesi, già da lungo tempo formulata, che una decorazione simile a quella della parete d'ingresso si dovesse avere anche nelle adiacenti settentrionale e meridionale.
Le sei statue femminili sono state ritenute figure di sante e per quattro di esse è stato formulato il nome: si tratterebbe delle martiri Chiona, Irene, Agape e Sofia. La loro identificazione, comunque, è tutt'altro che sicura.
Le eleganti figure, fortemente allungate e chiuse entro vesti impreziosite da motivi decorativi diversi per ciascuna di esse, hanno una solenne ieraticità e sebbene richiamino alla memoria teorie di sante proprie del mondo musivo bizantino, da quelle si discostano per un accenno di realismo visibile nella pur stilizzata modellazione e per la nuova caratterizzazione dei volti. Per quanto riguarda la datazione, non v'è dubbio che tutta la decorazione in stucco sia da situarsi all'epoca stessa in cui fu costruito il Tempietto, cioè appena oltre la metà del secolo VIII. Gli affreschi originari, databili al 760 circa, sono ridotti a pochi episodi: il Cristo Logos tra gli Arcangeli Michele e Gabriele e alcuni martiri (resti di una teoria che correva almeno in tre pareti) nella parete d'ingresso, e un Sant'Adriano in quella settentrionale: elementi comuni e peculiari in tutti sono la fissità delle posizioni, i tratti espressionistici dei volti, l'uso di terre verdi per creare effetti chiaroscurali.

Un altro monumento di un certo interesse è il così detto Ipogeo Celtico, uno strano ed umido cunicolo sotterraneo (scavato nella roccia che fa da sponda al Natisone sotto un'abitazione di via Monastero Maggiore) che si sviluppa con diramazioni a forma di K. Brevi corridoi irregolari su piani diversi, cui conducono rozze scale e nei quali si aprono nicchie pure irregolari; alcuni mascheroni dall'aspetto grezzo e primitivo contribuiscono ad accrescere l'atmosfera di mistero che grava sul luogo. Alcuni infatti hanno supposto che possa trattarsi di arte funeraria celtica, per altri invece il sito non sarebbe stato altro che un carcere romano.

Da vedere anche il Ponte del Diavolo che, gettato sul fiume Natisone, con due campate ed un unico pilastro poggiato su un masso naturale esistente in mezzo al fiume, è un po' il simbolo della città di Cividale. Risale alla metà del Quattrocento, fu progettato dall'architetto lombardo Jacopo Daguro da Bissone (1442) ma ultimato dieci anni più tardi dal capomastro Erardo da Villaco. Distrutto nel 1917, all'epoca della disfatta di Caporetto, venne poi rifatto dagli stessi Austriaci così com'era, grazie ai rilievi esistenti, e arbitrariamente completato più tardi (1939) con il parapetto che lo deturpa.
È una costruzione molto ardita, parecchio alta sul letto del fiume, e prende il nome di "ponte del Diavolo" da una leggenda, per altro diffusa in varie regioni d'Italia, che lo vuole costruito in una sola notte dal Diavolo in cambio dell'anima di un cividalese (il quale però, grazie ad un gustoso imbroglio, poté sottrarsi al Maligno).

Tra le chiese minori, S. Biagio, del secolo XV, fa intravvedere in facciata i resti degli affreschi stesi nel 1506-8 da Gian Paolo Thanner; ha portale goticheggiante (c. 1488) fatto da Biagio de Meritis e Toni de Lochya, una statuina di S. Biagio del 1467 di tale Domenico di Zucco, affreschi di pittura duecentesca e trecentesca nella navata e soprattutto nella cappella di S. Biagio, il cui cupolino ha dodici settori con storie della vita del Santo (maestro provinciale, seconda metà del XIV secolo).
Nella stessa cappella, affresco con S. Biagio (XV secolo) e bella serie (in parte malandatissima) dei Mesi nello zoccolo. Nel presbiterio pala d'altare del 1507 del pittore cividalese Pietro Miani (S. Biagio in trono) con predella dipinta da Secante Secanti (Martirio di S. Biagio, inizio secolo XVII) e, nel lunettone, Annunciazione di Marco Vecellio (1604).

La Chiesa di S. Francesco, costruita a partire dal 1284, ha facciata a capanna e bella parte absidale che s'erge sulla roccia a picco sul Natisone. L'interno è a croce latina con tre cappelline absidali coperte di gotiche crociere. Ora è adibita ad auditorium.
Del vasto ciclo decorativo di affreschi trequattrocenteschi che coprivano larga parte delle pareti della chiesa, senza un organico schema, ben poco è rimasto. Tra le cose più belle, gli affreschi del transetto di destra (con le figure dei Ss. Ludovico da Tolosa, Maria Maddalena e Lorenzo diacono) e la Crocifissione tra le due finestre dell'abside, forse l'affresco più conosciuto: opere tutte di maestri riminesi della prima metà del secolo XIV. Non mancano, nella chiesa, affreschi di scuola emiliano- friulana della seconda metà del Trecento o dell'inizio del Quattrocento.
Molto gustosi, per l'ingenuità della composizione, per i colori festosi, per la morbida linea di contorno, per la fresca narrazione, gli ancora sconosciuti affreschi trecenteschi con scene della vita di S. Francesco conservati in sagrestia, dove esistono affreschi anche del comasco Giulio Quaglio (Castigo di Ozia travolto dal carro per aver toccato l'arca dell'alleanza, Mosè, Davide nel soffitto; S. Francesco, S. Bonaventura e la SS. Eucarestia nelle pareti; figure di pontefici entro la decorazione a stucco, 1693).

Nella Chiesa di S. Giovanni Battista (ristrutturata nel secolo XVIII ad opera dell'architetto Luca Andrioli), affresco del soffitto di Giuseppe Diziani (1771), pala del bolognese Ercole Graziani (1750) nell'altare maggiore (Assunta, S. Giovanni Battista, S. Giovanni Evangelista), dipinti di Palma il Giovane (1608, Cristo Crocifisso tra la Beata Benvenuta Boiani e S. Orsola), Pier Antonio Novelli (S. Michele Arcangelo, S. Benedetto e S. Chiara, secolo XVIII), Francesco Pittoni (S. Andrea, secolo XVIII), Giuseppe de Gobbis (S. Scolastica, S. Benedetto e S. Brunone, secolo XVIII).

Anche la Chiesa di S. Giovanni Xenodochio è ricca di opere d'arte anche se le più note, S. Rocco e Madonna con Bambino, sono state portate al Museo Archeologico; sono opera di Paolo Veronese e risalgono al 1584.
Altare con statue di Giacomo Contiero, (secolo XVIII), belle grate in ferro battuto, quadri di maniera sulle pareti laterali del coro, soffitto dell'aula con riquadri in tela dipinti da Palma il Giovane (inizio secolo XVII), soffitto della sagrestia con tela (ora al Museo) di Francesco Zugno (Gloria di S. Giovanni Battista).
Mobile di sagrestia, splendido, di Matteo Deganutti (1712-1794).

Nella Chiesa di S. Martino pala attribuita a Nicola Grassi (S. Martino dona parte del proprio mantello al povero) e statue dell'altar maggiore (Ratchis e Anselmo) di Giacomo Contiero (secolo XVIII); in S. Pietro ai Volti bel dipinto di Palma il Giovane (1607, Redentore risorto tra i Santi Sebastiano e Rocco), di Gaspare Diziani (la Madonna adorata da quattro frati cappuccini, 1735-40), di Antonio Dugoni (Addolorata, 1847-48); in S. Silvestro affreschi dell'udinese Pietro Venier del 1705 e del 1918 (Francesco Barazzutti).

Interessante anche la Chiesa di S. Giorgio in Vado, nella frazione di Rualis, risalente al XIII secolo, con diversi affreschi sulle pareti dell'aula, del presbiterio e della sacrestia. Sulla parte sinistra dell'aula, sopra brani di affreschi del XIII secolo, una notevole rappresentazione del Martirio di S. Tomaso Becket di anonimo pittore della fine del '300 cui appartengono anche altre due opere: un S. Giorgio e un angelo che presenta un fedele inginocchiato.

Tra gli edifici civili, notevoli il Palazzo Comunale, costruito nel XV secolo e più volte rimaneggiato fino ad assumere, ad opera di un restauro del 1934, il piacevole aspetto odierno (la parte modernissima - 1968-72 - è dovuta al progetto di Gianni Avon); Palazzo Boiani, rinascimentale, con balcone abbellito da testine in pietra di Benedetto degli Astori (ca. 1525); Palazzo Stringher-Levrini con facciata affrescata dell'inizio del secolo XVI (pitture attribuite a Marco Bello); Palazzo Brosadola, con ottimi affreschi del cividalese Francesco Chiarottini (1785), autore anche della decorazione della Villa Foramitti Moro.

Da ultimo conviene ricordare la Piazza Paolo Diacono, spazio suggestivo sul quale si affacciano case con facciate decorate a fresco, una Casa medievale sulla via che porta al Tempietto Longobardo e i tre Monumenti a Giulio Cesare (in piazza del Duomo, copia dell'originale traianeo ora in Campidoglio a Roma), ad Adelaide Ristori (1916, scultore Antonio Maraini) ed alla Resistenza (Luciano Ceschia, 1975).
 

Informazioni tratte da: 
 GUIDA ARTISTICA DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 
(
a cura di Giuseppe Bergamini )
dell'Associazione fra le Pro Loco del Friuli-Venezia Giulia
http://www.prolocoregionefvg.org