nuove dal friuli e dal mondo

Manzano, 21 Aprile 2005

Incontri con l'autore e degustazioni

Odorico Serena ha presentato:
“Cjant forest”
di Galliano Zof

 
 Odorico Serena e Galliano Zof
 

“CJANT FOREST” di Galliano Zof
Manzano, 21 aprile 2005-04-06
Note di Odorico Serena

     La poesia è la più pura delle arti, perché è fatta solo di soffi che fanno vibrare le corde vocali da cui hanno origine quei suoni che danno vita alle parole: sono proprio queste che attestano ciò che si forma, si modella e si organizza, come nel seno della madre, nell’animo del poeta.
     Inoltre la poesia è stata forse la prima delle arti, perchè, essendo l’espressione umana che comunica emozioni e sollecita la formazione di immagini che sono alla base dei miti, delle leggende e dell’epopea di una gente, porta in superficie quello che di più profondo matura nella parte nascosta del cuore del suo Autore: per questa ragione è stata l’attività per eccellenza che ha dato un’identità, un’unità di sentire e di cultura, a questo o quel gruppo di persone che costituiscono la famiglia umana e, quindi, ha contribuito a formare e a plasmare l’anima dei popoli.
     In sede filosofica e letteraria sono numerose le concezioni che riguardano la poesia e la sua funzione.
     C’è chi, ad esempio, ritiene che essa possa svolgere un ruolo di stimolo in chi l’ascolta, sollecitando la sua partecipazione emotiva, per cui coinciderebbe sostanzialmente con l’empatia che si manifesta evocando emozioni, atteggiamenti, immagini.
     Altri, invece, mettono in luce il fatto che essa sarebbe una forma tutta speciale di verità assoluta, una forma di conoscenza che annoda il particolare e l’universale, accoglie del pari il piacere e il dolore, innalza la visione delle parti al tutto.
     Diceva Heidegger che “la poesia non è un qualsiasi semplice dire, ma è quello per il quale si trova inizialmente rivelato tutto ciò che noi dibattiamo e trattiamo in seguito nel linguaggio di tutti i giorni. Di conseguenza, la poesia non riceve mai il linguaggio come materia da manipolare, e che gli sarebbe presupposta, ma al contrario è la poesia che comincia a rendere possibile il linguaggio. La poesia è il linguaggio primitivo di un popolo, .. e, come linguaggio originario, è la verità stessa, vale a dire la manifestazione o lo svelamento dell’Essere”.
     Altri studiosi ritengono che la poesia sia un modo privilegiato di espressione linguistica, che si distingue dalla narrazione e dalla descrizione in quanto il poeta condensa ed abbrevia, dando così alle parole, come sosteneva Dewey, “un’energia di espansione che è quasi esplosiva”.
     Ci sono inoltre pensatori e letterati che attestano che la poesia rimanga perennemente indipendente da qualsivoglia interesse o utilità: carattere questo che si trova compendiato nell’espressione latina di “ars gratia artis”, l’arte per l’arte.
     E l’arte avrebbe come suo unico fine la bellezza.
     Ecco perchè spesso, se non sempre, la creatività poetica coincide con la ricerca della perfezione formale.
Questo modo di intendere l’attività è confermata da Ungaretti, che scriveva: “Sognavo una poesia dove la segretezza dell’animo..si conciliasse ad un’estrema sapienza di discorso”.
     Erza Pound ritiene, invece, che la poesia abbia il compito di “mantenere efficiente il linguaggio”, o caricando le parole di una qualche qualità musicale che condiziona il loro significato (“Dolce e chiara è la notte/ e senza vento..”, cantava Leopardi), o proiettando le immagini che le parole evocano sulla fantasia visiva, o inserendo le parole in un ventaglio di giochi linguistici ed espressivi.
La stessa parola “poesia” si richiama al verbo greco “ποιείν”, che significa fare, produrre, creare.
Ma la poesia potrebbe assumere pure una funzione politica.
Lo ricordò, in un celebre discorso, John Kennedy, che si espresse in questi termini: “Quando il potere spinge l’uomo all’arroganza, la poesia gli ricorda i suoi limiti. Quando il potere restringe il campo dei suoi interessi, la poesia gli ricorda la ricchezza e la diversità della sua esistenza. Quando il potere corrompe, la poesia purifica, perché l’arte afferma le fondamentali verità umane che debbono servire da pietre di paragone del nostro giudizio”.
     Nella lunga storia dell’umanità la poesia avrebbe anche assunto valore didascalico, come lo si può ravvisare ne “ Le opere e i giorni” del greco Esiodo e nelle “Georgiche” del latino Virgilio.
     Talora il poeta può essere il vate del proprio tempo, anticipando, o i progressi e le speranze di un popolo, come lo furono i profeti per Israele, o preconizzando involuzioni e sciagure, come lo fu Cassandra nel Poema omerico.
Certo, sarebbe interessante discutere e documentare ognuna di queste interpretazioni, le cui citazioni hanno, in questa sede, soltanto lo scopo di permettere, pur attraverso tali brevi accenni, di accostarsi ad un testo breve e complesso come il “Cjant forest” di Galliano Zof e di comprendere la complessità del suo mondo artistico.
Forse è appena il caso di ricordare che esistono tre generi di linguaggio.
      C’è quello comune (questo tavolo è grande), che è superficiale e impreciso, c’è quello scientifico (il sole entra in Ariete il 20 marzo, alle ore 18 e trenta e ventun secondi), che dà le esatte dimensioni del reale, e c’è, infine, quello poetico, che è polisenso.
Le parole che usa ogni poeta -che sia tale- sono cariche del potenziale che è proprio di tutta la loro storia.
Le parole non sono mai neutrali, perché sono dotate di senso e perchè hanno in se stesse una pluralità di voci, una polifonia, che non sempre è agevole comprendere in tutto il suo intreccio espressivo.
     Questo vuol dire che, leggendo anche un solo verso, è necessario saper cogliere la complessità del mondo che vi sta dietro ed è anche un sollecito a non mai arrestarsi alla prima lettura, con la quale spesso è difficile ascoltare quella pluralità di voci di cui si è detto.
      “In ogni accento di poeta, in ogni creatura della sua fantasia - scriveva Benedetto Croce -c’è tutto l’umano destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori e le gioie, le grandezze e le miserie umane, il dramma intero del reale, che diviene e cresce in perpetuo su se stesso, soffrendo e gioendo”.
     Pensiamo quale mondo spirituale si apre con le prime parole del Vangelo di Giovanni, che, pur essendo un testo religioso, ha il fascino della poesia: “In principio c’era il “Λóγος””, c’era la Parola, il che vuol dire che la parola è il fondamento stesso del nostro essere persone.
     Dante definì questo prologo come “l’alto preconio che grida l’arcano” (l’annuncio solenne che proclama la realtà nascosta e misteriosa).
      Certo, la comunicazione non è solo propria del mondo umano: le piante comunicano con i pollini, i colori e le essenze dei fiori, gli animali con i versi, il canto, la mimica, i ferormoni, ma, per la persona umana, la gamma dei gesti, il contatto visivo, le posture, la mimica, il sorriso non esauriscono l’urgenza fondamentale della comunicazione, ma la precedono e l’accompagnano, perché, rispetto agli altri esseri viventi, ella possiede il dono della parola.
      Allora, se è vero che l’uomo è simile a Dio, lo è in virtù della parola, che è la scintilla divina che brilla in ognuno di noi.
     Si accennava in precedenza al fatto che ci sarebbero diversi generi di linguaggio - quello comune, quello scientifico e quello poetico – che, a loro volta, vengono utilizzati in ambienti differenti e diventano specifici per le esigenze proprie di ognuno di essi: la casa, la scuola, la Chiesa, i laboratori di ricerca, gli ospedali, la piazza, la televisione, il cinema, lo stadio, l’ufficio.
     Grande e ineludibile compito delle istituzioni educative è anche quello di insegnare a distinguere i diversi generi di linguaggio e, in questo nostro tempo, anche di condannare l’imbarbarimento che, come una deriva, da qualche decennio si sta riversando sulla società tutta, soprattutto su quella giovanile, da quando cioè i mezzi di diffusione di massa, quali la televisione, le radio, i giornali, hanno adottato le volgarità e le ingiurie, come se fossero un atto di libertà e una conquista civile.
     E’ ormai un imperativo, soprattutto di un’etica civile, far capire ai giovani che una parola non vale l’altra e che dietro all’uso di questo o di quel linguaggio ai aprono mondi diversi.
Riflettere sulla parola significa dunque insegnare a pensare e a distinguere la chiacchiera, la banalità, l’illusione, la bugia, se non la volgarità, dalla luminosità del significato pieno, della ricerca del vero, del rispetto e della fruizione del Λóγος.
     Alla luce di questi presupposti si può allora passare ad esaminare, pur nelle linee essenziali, la lunga ricerca poetica di Galliano Zof.
     Nato e residente a Santa Maria La Longa, (è proprio in questo Paese della Bassa friulana che Ungaretti scrisse il famoso verso: “M’illumino d’immenso”), egli possiede una solida cultura letteraria e filosofica con interessi in psicologia e nella scienza grafologica.
     E’ stato per diversi anni docente e quindi Preside nelle Scuole Medie della provincia di Udine.
     Il suo essere poeta - soprattutto in marilenghe, - può essere considerato come una militanza costante al servizio alla Parola nel significato sopra descritto, perché animato dall’intento di sviluppare e di far vivere nei suoi versi l’anima, la storia e il sentire della gente della piccola e grande Patria, che è stata ed è il Friuli.
Egli muove i primi passi, giovanissimo.
     Nel lontano 1966, con Angeli, Vale e Venuti scrive “Un carantan di puisie” (Un soldo di poesia), in cui manifestava sin d’allora una sua sensibilità tutta particolare per il mondo contadino della Bassa friulana, che egli ben conosceva, essendo egli figlio di mezzadri.
     Per esperienza diretta gli erano note le fatiche che esso comportava, le condizioni di marginalità in cui si trovava, ma anche la fede profonda che lo animava, il suo indiscusso amore verso la terra, il senso profondo di appartenenza che legava tra di loro i componenti di una stessa famiglia e la solidarietà che si stabiliva tra le genti del borgo.
     L’anno successivo, assieme a Domenico Zannier, il “Mistral della Patria friulana” e a Mario Argante, costituiva il movimento letterario della Cjarande (la Siepe), che pubblicò un’antologia, in forma di manifesto, che comprendeva i componimenti di ventidue autori.
     Nel 1968 usciva “Lidrîs di tuessin” (Radici di veleno), nel 1969 “Pan cence levan” (Pane senza lievito) e nel 1971 “Poesie scelte friulane”. Poi una pausa di qualche anno.
     Seguono due raccolte poetiche: “De bande dei siôrs”(Dalla parte dei padroni) (1976), con presentazione e traduzione in italiano di Domenico Zannier e “Contadinance” (Contadinanza quale classe dei lavoratori della terra) (1977), con introduzione di Riccardo Chiesa.
     Si apriva per lui un’intensa stagione di poesia sociale che denunciava condizioni di povertà, fatiche, patimenti comuni, ma che pure svelava la profondità di sentimenti della gente della terra e i valori profondamente umani radicati nella fede cristiana.
     Erano gli anni dell’immediato dopo terremoto che, dopo aver devastato una parte considerevole del Friuli, ne metteva in pericolo la stessa identità.
     “La poetica di Zof -scrive Zannier nella prefazione a “De bande dei siôrs”- è segnata da un realismo terragno che si aggancia alle passioni primigenie dell’uomo e che riesce quasi sempre a entrare in zone di sublimazione. Da qui urti e improvvise dolcezze, ferite nella carne e rasserenanti idealità”.
In questo lavoro compare “tutto un mondo sociale che, dopo secoli di sofferenza, comincia ad emergere nella sua identità e a prendere il posto che gli spetta”.
Nel successivo “Contadinance” Zof tratteggia -scrive Riccardo Chiesa- “un quadro soprattutto critico, denunciando gli effetti negativi dell’emigrazione, i condizionamenti della cultura padronale e “oppressiva” ” , ma anche mette in luce “la spiritualità esaltante” del Cristo, “protettore e consolatore, nonché modello cui tendere”.
     Indubbiamente il poeta è consapevole che il mondo contadino da lui rievocato sta profondamente cambiando sotto l’impulso di una nuova stagione sociale e sa che le generazioni contemporanee sono in condizioni di perenne agitazione, né paiono accettare i vincoli della precedente inferiorità.
     Sembra così di avvertire anche nel mondo contadino il vocio alto e confuso del Sessantotto.
     Accanto ai motivi accennati che gridano contro le ingiustizie di secoli, reclamano il riscatto sociale della gente del mondo contadino e rivendicano i diritti degli umili ( persino al cane del padrone poteva permettersi di gironzolare nelle braide e veniva salutato in lingua italiana dai fittavoli), Zof intreccia altre importanti tematiche che ormai fanno parte integrante del suo mondo poetico: la nostalgia per l’infanzia anche se povera, l’affetto per il “borgo natio”, la rievocazione di figure che hanno lasciato per sempre questo mondo, il dramma dell’emigrazione in Paesi lontani con gli inevitabili disagi e pericoli, l’incanto che nasce nel suo animo di fronte alla bellezza femminile e alla gioia della donna di essere madre, specchio umano dell’ “alma mater”, della terra che nutre.
     Sempre nel primo post-terremoto, con Zannier, pubblica un libretto di contributi di vario genere (lingua, filologia, letteratura, arte, politica..) scritti perché “Il Friuli è una patria che non deve morire”, con l’intento di richiamare la gente di questa terra al senso della propria identità e dei propri valori millenari che non debbono andare perduti.
     Nel 1981 Zof sente il bisogno di compiere una prima scelta di tutta la sua precedente produzione poetica: esce così “Flôrs” (Fiori), nel quale si coglie bene la “molteplicità di sentimenti” e “la schiettezza persino ruvida con cui essi vengono rappresentati”, - come scrive D’Aronco nella presentazione -, per cui egli è “ora aggressivo, ora scettico, ora contestatore, ora rassegnato”, vigoroso e maschio quando condanna, dolce, come un accenno di carezza, quando si rivolge alla donna.
     Sempre nel 1981 egli si cimenta con il linguaggio e la rappresentazione teatrale con “Lune in cercli” (La luna nell’alone), nella quale narra vicende del 1653, che si svolgono nella “vicinie di Ravoncli”, nome simbolico di una località della Bassa.
     E’ un affresco di vita politica, sociale, economica e religiosa del Seicento friulano.
L’animano contadini in difficoltà per la siccità incombente che compromette il raccolti, il conte che è padrone non solo delle terre, ma anche di coloro che le lavorano, le figure caratteristiche di Benandanti e streghe, l’amore sorgente tra due giovani.
     Tutto si svolge tra i riti delle Rogazioni e i processi dell’Inquisizione.
     Il 1984 vede la luce “Spire e muse” (in italiano: testa e croce), titolo che allude alla doppia faccia della realtà - in analogia a quanto viene impresso sulle monete - che si può cogliere già nei seguenti versi con cui inizia la raccolta: (..al mi contave il von/…lumant/ oltri il cunfín des formis ch’a incéin/ la cìfare…) (mi raccontava il nonno cercando di cogliere la pienezza del reale oltre il confine fenomenico che ne abbaglia l’essenza).
     Del 1988 è “Timp cence timp” ( Tempo senza tempo) che raccoglie le liriche scritte tra il 1985 e il 1987.
     Sono poesie al di fuori del tempo e dello spazio, con valori di universalità, perché da sempre sboccia in primavera il canto d’amore, che diventa poi maturo, ma del quale rimangono perenni nella memoria le emozioni forti dell’inizio.
     E’ di ogni tempo la presenza dell’elemento religioso nelle genti: straordinari sono i versi con cui il poeta delinea il ritratto della Madre del Cristo dal momento dell’Annunciazione al dileggio del Golgota; oppure sono di ogni tempo le tante schiavitù, di cui l’essere umano può diventare vittima, la droga, il tradimento, il male.
     Nel 1995 esce “Planta salvadia” (Pianta selvatica), in friulano, italiano e rumeno.
     Si tratta di una piccola antologia della sua precedente produzione in cui si trovano accomunati i motivi più caratteristici della sua musa: i ritratti del padre, dal volto color della terra e della madre, come una bianca muraglia di orto, le cui mani, intrecciate ad arco, sono state per il poeta un gioco d’ altalena; la cerimonia funebre in memoria della morte della nonna Adele portata a spalle fino al cimitero; i ricordi della fanciullezza; la denuncia contro i padroni di un tempo; l’incanto della bocca rosata della donna, cerchio di luna, il suo bacio che aveva il profumo della viola e lui, il poeta, cresciuto come pianta selvatica.
     Nel 2001, Zof pubblica un’altra raccolta di liriche ladine: “Salmodiis”(Salmodie) che si apre con l’elogio alla lingua friulana, quella lingua che il potere ha rifiutato (era da poco stata approvata la legge di tutela delle minoranze linguistiche storiche), i signori e la borghesia hanno maltrattato, ma che è stata sempre amata dalle gente.
     In forma calda, sintetica e profonda emergono dalla memoria persone, stagioni, luoghi, mentre il poeta è perfettamente cosciente dello scorrere del tempo, egli figlio del sangue e di una storia, col desiderio però di andare oltre il sangue e la storia e suggere il tempo infinito.
     Due liriche di quest’opera possono considerarsi paradigmatiche degli stati d’animo del momento: l’una è il ritratto della divina Ancella, roccia di monte e splendore di stelle, l’altra il ricordo struggente del Nani, un mulo compagno di lavoro ed evocatore di tanti episodi della vita dei campi e della fanciullezza del poeta.
     L’ultimo canto è del novembre del 2003, ma solo ora viene presentato.
     Di questo suo recente lavoro hanno già scritto Lucio De Clara su “La vita cattolica” del maggio 2004 e Giannino Angeli sulla rivista culturale “Sot la nape” della Società filologica friulana nel numero di ottobre - dicembre 2004.
Il titolo Cjant forest” (Canto straniero), con cui Zof ha chiamato questa raccolta, esige un chiarimento e un’interpretazione che possono avere luogo soprattutto ricordando che la poesia è polisenso.
     Di fatto, il poeta, che per tutta la vita voluto celebrare il mondo contadino, la gente dei campi e la straordinaria sua epopea umile, nascosta, ricca di sentire e di valori, mondo troppo spesso dimenticato dalla cultura e dalla politica del dopoguerra, considera il suo canto “forest”, (altro, estraneo), in quanto vive ormai in una società che appare sempre più senza memoria.
     Sente estranee le scelte della gente, che è per lo più orientata ad individuare per i propri figli una preparazione culturale e professionale che sembra voler dimenticare le proprie radici e la propria storia, orientata com’è verso modelli di efficientismo e di globalizzazione, in cui tutto si uniforma e nel quale, di conseguenza, si perdono le differenze.
     Estranea sembra essere anche la marilenghe e, con essa, i valori che l’hanno accompagnata.
Profondamente diverso e lontano è per lui il linguaggio che usano troppo frequentemente i media pieno di volgarità, di violenza e di ingiurie.
     Si sente poi distante da certi modelli di vita marginale in cui sono confinati quelli che considerano la vita un vuoto da riempire con il nulla.
     Si considera infine straniero di fronte all’incalzante mondo dei media che trasformano tutto in immagine, mentre la parola, o assume una funzione secondaria, o è del tutto abolita.
     Ma forse considera estranea pure l’Europa che si sta formando, che pare orientata a privilegiare la politica economica e monetaria, ma non i valori fondamentali che l’avevano accompagnata ed animata fin da quando essa stava nascendo come idea di un rinnovato universalismo. Eppure, il canto del poeta deve poter trovare ancora momenti di ascolto.
     La prima pagina riporta una poesia di Ignazio Buttitta, poeta italico-mediterraneo, che considera ancora libero un popolo messo a catena e messo al silenzio, che lo ritiene ancora vitale pur nella miseria e nella disoccupazione, ma che invece diventa povero, schiavo e servo per sempre se gli sottraggono e gli spengono la lingua usata dai padri.
La più recente poesia di Zof si apre a temi nuovi e richiama altri che la sua cetra ha onorato: la difesa della lingua materna e dei valori di sempre, la rappresentazione del mondo contadino, il senso profondo degli affetti.
Il testo si compone di sei ballate, che sono una denuncia dei vizi di questa nostra società, e di diciannove poesie tutte composte con uno stile sobrio, intenso, fatto di poche pennellate, ma utilizzando parole ricche di polisenso.
Nella ballate il poeta parla in prima persona, come se egli stesso, vittima innocente come un profeta o un povero cristo, si fosse addossato sulle sue spalle le scorrettezze comportamentali, più o meno significative, ma comunque presenti, e le abiezioni forti del nostro tempo: schiavo del possedere, soggiogato dalla gola, assoggettato all’alcool, dipendente dalla droga, asservito al nulla.
     Ogni ballata si chiude con gli stessi versi: “Voi che siete ancora saggi, lasciate i vostri lavori di ogni giorno e liberatemi da questa oppressione”.
     Seguono quindi alcune pagine liriche di grande intensità e profondo significato.
      In “Sflandôr”(Spendore) si adombra il mistero della vita, che è donata, che va vissuta nella pienezza e che va restituita intatta quando la sera – la tarda età - si tingerà di macchie di ruggine di un’esistenza ormai consumata.
In “Cuotidianitât”(Quotidianità) il poeta ci presenta l’immagine di una chioccia che accompagna i suoi pulcini a scoprire il mondo al di là del nido e le fonti del loro futuro sostentamento: ma essi, uguali nel diritto alla vita, si azzuffano finchè qualcuno, colpito dal becco dei fratelli, muore vinto e senza piume: simbolo dunque di un’umanità che non ha ancora scoperto l’altro.
     Quindi in “Femine”(Donna) delinea la figura di Romilda, una lavoratrice che ha passato la vita tra l’orto e il mercato di Palmanova, per allevare con dignità i figli, nel cui volto brillano ancora gli occhi verdi, ma le cui ali sono ormai spente.
      Il tema della notte ha ispirato poeti di ogni tempo: è il momento de “Pâs”, quando la notte arriva sul paese con passo felpato e accarezza i fiori, le lumache, le rane, i ricci, i formicai della muraglia e i pipistrelli a caccia di moscerini. Ma la notte fugge e, forse, con lei la pace.
     Quindi l’immagine suggestiva di Zof bambino quando faceva le bolle di sapone che subito poi scoppiavano, lasciando sulla terra grige lacrime: le bolle, come l’aquilone del Pascoli, sono le illusioni, che durano un attimo e poi si spengono nel plumbeo del disincanto.
     In “Leam” (Legame) l’animo dell’autore, sul far della sera, quando tutto diventa ombra e i pensieri sono inclini all’umiltà, si pone alla ricerca di Dio in ogni aspetto reale: e Dio gli sembra vicino e lontano nella pienezza che non ha confini.
     Un accenno va poi riservato a “Sûrs” (Sorelle), che non sono sette belle giovani donne, ma altrettante mucche che per il mondo contadino erano autentiche compagne nella fatiche e fonte indispensabile di nutrimento.
     Ognuna di loro, però, si distingueva per un suo preciso carattere: era vivace o calma, spavalda o mite, collaborativa o con segni di indipendenza.
     Tutte erano vissute nello stesso luogo e sotto lo stesso cielo: la Viole, la Galande, la Blancje, la Rosse, la Stele, la Parigine…nomi che le personalizzavano, ma che ormai sembrano dissolti nei ritmi nuovi di un’agricoltura svanita nel tempo.
     E, infine, l’ultima lirica che chiude la raccolta: “Animis”(Anime), laddove il poeta rivede la gente dei campi, che, madida di sudore sotto un sole accecante, falciava il frumento (non c’erano allora le macchine di oggi), lo raccoglieva in covoni e poi provvedeva a separare i chicchi dalla paglia in un turbinio di polvere e, nonostante tutto, avendo ancora la forza di cantare.
     Sullo sfondo la figura del padrone, che osservava tutto il processo lavorativo vestito di bianco.
     Ancora una volta la parola “bianco”, usata da Zof, deve essere letta nei diversi significati che poeticamente la connotano: il vestito bianco stabilisce, prima di tutto, una gerarchia, perché distingue chi doveva operare con fatica da chi lo controllava e poi del lavoro altrui godeva i frutti; rammenta che, per ragioni di fatto, la servitù della gleba era ancora vigente alcuni decenni fa nel Friuli degli “Ultimi”, come padre Turoldo aveva intitolato un suo celebre film, nonostante l’avvento della democrazia; il discorso poi assume un valore universale quando il pensiero va ai tanti popoli di questa terra che vivono nella povertà, operano con fatica e i frutti del loro lavoro vengono giornalmente condizionati da oscuri e potenti intermediari, che scambiano i loro prodotti nel gioco delle borse mondiali.
     Galliano Zof, confidandosi con gli amici dopo la pubblicazione di “Cjant forest”, ha espresso l’intenzione di deporre la cetra.
     L’augurio caloroso che gli si può rivolgere è che continui, invece, a rendere nelle parole polisenso il suo ricco mondo interiore, che aiuti la gente di questa Terra a trovare e a riconoscere le proprie radici e la incoraggi a coltivare la bellezza e l’espressività della marilenghe, perché proprio per mezzo di lei il nostro Friuli continui a vivere conservando le sue millenarie differenze e specificità. Odorico Serena

 

Galliano Zof

Insegnante e poeta, è nato a Santa Maria la Longa nel 1933. Dopo avere fatto parte del gruppo del Tesaur di G. D'Aronco, nel 1967 ha pubblicato, con M. Argante e con D. Zannier, l'antologia-manifesto La cjarande. Ha al suo attivo alcuni libri di versi che si raccomandano per contenuto e forma. Gli ultimi sono le Liriche ladine Salmodiis (2001) e Cjant Forest (2003). Ha ricevuto il premio Nadâl furlan nel 1983 e nel 2003 il premio Jacum dai Zeis. Ultimamente è stato insignito del titolo di Cavaliere della repubblica. Sin dal 1990 è ideatore e referente scientifico della collana “Miti, Fiabe e Leggende del Friuli Storico” dell’Istituto A.Tellini di Manzano.

Insegnant e poete, al è nassût a Sante Marie la Lungje tal 1933. Dopo vê fat part dal grup dal Tesaur di G. D'Aronco, tal 1967 al ha publicât, cun M. Argante e con D. Zannier, la antologjie-manifest La cjarande. Al so atîf al à cualchi libri di viers che si racomandin tant pal cuntignût che pe forme. I ultins a son lis Lirichis ladinis Salmodiis (2001) e Cjant Forest (2003). Tal 1983 al à vût il premi Nadâl furlan e tal 2003 il premi Jacum dai Zeis. Ultimementri al à vût il ricognossiment di Cavaliêr de Republiche. Fin dal 1990 ideatôr de golaine “Miti, Fiabe e Leggende del Friuli Storico” e referent sientific dai studis di Antropologjie Culturâl dal Istitût A.Tellini di Manzan.

Bibliografia – Bibliografie 
Lidrîs di tuessin, Udine 1968; Pan cence levan, Udine 1969; De bande dai siôrs, Udine 1976; Contadinance, Udine 1977; D. Zannier - G. Z., Tradizioni artigiane in Friuli, Udine 1978; Flôrs. Poesie ladine scelte. 1961-1980, Udine 1981; Lune in cercli. Storiis de vicinie dal Ravoncli tal an dal Signôr 1653 (dramma), Cjasteons di Strade 1981; Spire e muse, Udine 1984; Timp cence timp, Udine 1988; La questione “lingua e dialetto”. Centralità della lingua friulana, in “Laude de lenghe furlane”. Riflessioni pedagogiche, linguistiche, filosofiche, San Giovanni al Natisone s.d. ma 1992; Planta Salvadia, Clusium 1995.
Cfr.: D'Ar. III, 390-391; Un carantan di puisie, Udine 1966; La cjarande, Udine 1967; F. Amato, La poetica di G. Z., PAN XVIII-XIX, 1972; G. Zucchi, Poesia e ideologia in G. Z., PAN XXXIX, 1978; V. T. Giurleo, L'omp, l'omenut, l'omenon, il trist, “In uaite” II, 1985; A. Kersevan - G. Velliscig, Dîs musichis par dîs poetis, Udine s. a., ma 1986; W. Belardi - G. Faggin, La poesia friulana del Novecento, Roma 1987; A. Giacomini, Wie eine Viole in Casarsa, Brazzano, Cormons 1988; G. Di Fusco, La poesia nel Friuli-V.G., Forlì 1988; Il turcli, Pučui 1989; Grafie: cualchi propueste, VC19.1.2002.


Il brindisi finale era proposto dall'Azienda Agricola Midolini,
accompagnati da assaggi offerti dal Salumificio Dentesano e Cinel Catering

Incontri organizzati dall'Assessorato alla Cultura
Biblioteca Comunale "C. Percoto" di Manzano

Per informazioni: Biblioteca Comunale "Caterina Percolo"
Tel. 0432 754617 - E-mail: biblioteca@comune.manzano.ud.it