i nostri emigranti

RENATO GALLIUSSI - Paranà (Entre Rios) - Argentina (Paese friulano d'origine: Orsaria di Premariacco - UD)

Nato a ORSARIA (UD) nel 1935, è un emigrato in Argentina. E’ dovuto partire a quindici anni, lasciando un mondo di affetti e una adolescenza vissuta intensamente. Le vicende della vita poi gli hanno impedito per quarant’anni di ritornare al proprio paese. Tanti anni di lontananza hanno aumentato sempre di più il suo desiderio di rivedere amici e luoghi rimasti sempre nel cuore e di poter rivivere almeno per un poco le antiche emozioni giovanili. Nei lunghi anni di emigrazione non passava giorno che in famiglia non si ricordasse con nostalgia il paese e la gente e la vita di un tempo. Anche di notte affioravano i ricordi e i sogni erano popolati dalle amate immagini. Questi versi documentano uno di questi sospirati ritorni notturni.

Paranà, 5 Giugno 2000 - Caro amico Aldo, tu mi chiedi di mandarti qualche mia storia dei primi anni dell'emigrazione. Ed eccoti accontentato... 

Partito quindicenne dal paese di Orsaria con mio padre Camillo, nel mese di novembre dell'anno 1950, siamo arrivati dopo 22 o 23 giorni di viaggio sulla nave "Marco Polo" a Buenos Aires, sul Rio de la Plata. Con noi c'erano pure Alfieri e Danila Pittia, ai quali (essendo loro minorenni) mio padre faceva da tutore e che andavano dove eravamo destinati noi, a Paranà Entre Rios, per raggiungere loro padre Giòl Pittia. Arrivati a Paranà, fu tutto una festa conoscere i miei zii Adolfo e Ines Devoti e anche i mei cugini, due dei quali erano nati in Italia (Litardo e Antero Galliussi) e che io conoscevo solo per aver sentito parlare di loro in casa. Era un vero piacere sentire "biascicare" un strano friulano condito con abbondanti parole spagnole dai miei cugini più giovani nati in Argentina. Ad ogni modo si capiva bene e nei primi tempi venivano a salutarci molte persone, che magari non sapevano una sola parola d'italiano, però ci parlavano dei loro padri o nonni venuti dall'Italia negli anni prima della guerra e ci trattavano con molta simpatia. C'erano pure delle famiglie di Orsaria, come Rico Pitassi, con sua moglie Isolina (Suta Filissa), Leone Potocco, dei Paoloni ecc., che lo zio Adolfo ci portava a salutare le domeniche e restavano incantati con le storie che raccontava Camillo, mio padre, che aveva fatto la guerra e la prigionia in Germania. Stavano lì delle ore ad ascoltarlo (Camillo el saveva contalis!) ed anche s'informavano delle notizie del paese di Orsaria, di questo e di quello, di gente insomma che erano i conoscenti nel nostro paese. 


Sede della Società Friulana di Paranà, anni 60.
Mio fratello Silvano, mio padre, mia madre, mia figlia, Adriana, Mons. Emilio Pizzoni, 
mio cugino Ezio Galiussi, la zia Ines, io e mia moglie Betty.

Prima del nostro arrivo la zia Ines ci aveva trovato lavoro in una sartoria del centro della città, così che pochi giorni dopo siamo entrati a lavorare e a incominciare anche a cercare di imparare la lingua spagnola. Dunque tutto filava bene e per il suo verso, anche perché quella volta l'Argentina era molto ricca, c'era molto denaro in circolazione e si stava veramente bene, anche se a noi è toccato un fatto sgradevole con il padrone dove si lavorava. (Ci ha imbrogliato, ha lasciato molti debiti, ha chiuso bottega e s'è squagliato senza pagare nessuno. Ma questa è un'altra storia che te la racconterò un' altra volta). Ad ogni modo ci hanno assunto in un'altra sartoria del centro della città ed abbiamo incominciato a guadagnare e a mettere via i soldi per far venire la mamma e mio fratello Silvano. Però siccome si abitava assieme agli zii e cugini e non c'erano molte comodità (pensa: loro erano 7 di famiglia, più noi due facevano 9 e si stava veramente scomodi) così abbiamo trovato dopo sette o otto mesi una stanza grande in una casa che qui chiamano di pensione (dove davano in affitto alloggi economici, con non più di una o due stanze) e dove abbiamo dovuto dividerla in due pareti con una tenda, in una delle quali si dormiva e nell'altra ci si faceva da mangiare con un fornelletto a petrolio, quando si tornava dal lavoro. Fu quella l'epoca più dura della nostra vita in Argentina. Di soldi ce n'erano in abbondanza, ma non sufficienti per poter affittare una casa comoda e così abbiamo trascorso dei momenti veramente cattivi dei quali non voglio nemmeno pensarci su. Il caldo era atroce e non avevamo nessuna comodità. Come rimpiangevo in quei momenti la mia Orsaria!! Come sognavo di ritornare ancora nel mio paese, magari mangiando solo "polenta, lidric e formadi", ma essere libero di correre scalzo giù per le "ribe" del Natisone!! Se questa era l'America tanto sognata, potevano tenersela: io in quel momento l'avrei cambiata volentieri per il nostro "salèt" e per il mio Natisone.


Il giorno delle nozze. (Quattro patate e tre castagne)

Una domenica verso le dieci, mio padre era uscito non mi ricordo per dove (lui alle volte andava con mio zio e con Enrico Pitassi a trovare un altro di Orsaria, Celerino Juri, fratello di Tin Juri, ti ricordi?, che lavorava in un laminatoio e che abitava da solo in una casetta fuori città; mentre io dovevo andare a giocare una partita di pallone coi miei cugini in un paesello vicino a Paranà.Ricordo che mio cugino Litardo mi aveva regalato un paio di scarpe coi bulloni e una maglietta da calciatore e siamo partiti con un camion verso le 11. Allora siamo restati d'accordo con Camillo, siccome lui era uscito prima, di lasciare le chiavi delle stanze (le dovevo lasciare io) alla padrona di casa. Questa signora era di cognome Niemiz, dunque figlia di friulani, e il marito era Batistuta, pure dei nostri, e parlavano molto bene con noi la nostra lingua. Ma io mi sono dimenticate le chiavi in tasca e siccome sono tornato a casa verso le ore 18 (dopo di misdì) il povero papà non avendo altre chiavi ha dovuto trascorrere diverse ore camminando su e giù, finchè sono arrivato io. Tu puoi solo immaginare la scenata. E aveva ragione lui: era stato per colpa mia tutto il pomeriggio senza poter entrare in casa, lui che era abituato a riposare un po' la domenica. Mi ha detto un po' di "tutto" (sai come siamo noi friulani, "sberlòns, ma e uachìn cenza muardi").E allora io offeso ed avvilito (avevo solo 16 anni) sono uscito camminando e sono andato a sedermi su una panca di una piazza-giardino, un po' fuori città e lì, china la faccia nelle mani, cercavo di trattenere le lacrime, che per forza volevano uscire. Ero veramente avvilito e mi passavano per la testa i pensieri più neri. Oh, Italia!! mia cara Italia ! Che lontana tu sei, ma che vicina al mio cuore!

Mentre divagavo col pensiero, mi parve di udire come un coro di voci non molto lontane, che il vento mi portava alle volte tenui e alle volte un po' più forti. Dapprima non ci feci caso, pensando che fossero cose della mia fantasia, ma poi messomi ad ascoltare con più attenzione, potei udire che le voci erano vere e ... Sarà possibile? Ero desto o stavo sognando? Cantavano in italiano. Mi alzai dalla panca dove ero seduto e dapprima piano e poi correndo andai verso il luogo dal quale venivano quelle benedette voci. Era la sede di una società sportiva (un Club come dicono qua). Entrai in un salone pieno di gente e sopra lo scenario c'era un coro misto (uomini e donne) e avevano appena finito di cantare il famoso "Brindisi" dalla Traviata di Verdi e, dovuto dagli insistenti applausi della gente, stavano facendo il bis, cioè la replica di quel famoso brano. Il coro apparteneva alla Società "Dante Alighieri" di Paranà e il maestro era un toscano e si chiamava Lorenzo Anselmi. Appena finito, mi sono presentato al maestro il quale mi fece conoscere diversi ragazzi italiani della mia età, suppergiù ( e quindi erano molti emigranti appena arrivati dall'Italia, in quei tempi).Per farla in breve ti dirò che due giorni dopo, dopo un provino della voce, anche io facevo parte del coro della "Dante Alighieri", dove portai pure Alfieri Pittia e Danila e anche qualche mio cugino, nonchè Nino Pitassi, il figlio di Rico e di Isolina (Suta Filissa). Cosichè tre volte alla settimana, dopo il lavoro di sarto, alla sera si andava a far prove di canto con grande soddisfazione, perché lì tutti o quasi parlavano italiano e posso dire che la mia vita cambiò, perché mi misi in contatto con l'ambiente della cultura. Imparai un poco di musica, trovai pure un professore di pianoforte che m'insegnò a suonare la fisarmonica e anche a progredire nello studio musicale. Studiava fisarmonica pure Alfieri Pittia. Insomma grazie a tutto questo poi ho potuto frequentare il Conservatorio ed imparare il clarinetto, grazie al quale sono poi entrato nella Banda musicale della Polizia di Entre Rios, raggiungere un grado abbastanza elevato e ritirarmi con una discreta pensione, che oggi mi permette (anche se lavoro ancora nel mio vecchio mestiere di sarto) di passarla ragionevolmente bene, in questi tempi di difficoltà economiche che passa l' Argentina.


Teatro di Paranà. Io, il maestro e Alfieri Pittia.

Più avanti ti racconterò dei viaggi che ho fatto con questo Coro e come in uno di questi ho conosciuto il generale Peròn, al quale ho dato la mano e ho salutato in italiano (Anche se a Orsaria non mi hanno creduto, ma è proprio vero!). Per adesso tutto qui. Spero di non averti stancato e se non vale la pena, puoi cestinarla, senza alcun rimorso.
Un mandi di cûr e plui indenant ti mandarai un' âtra storia. Renato

NOSSÊRA O AI FAT UN SIÙN
(Renato Galliussi)

Nossêra o ai fat un siùn. Mi sameava
di sedi tornât frùt, tel gno paîs.
O levi sivilant content pe strada
e o zuiavi di balòn cui miei amîs.

Mi soi vidût discolz par chês contradis
cun t’una vuata, atôr pei Nadisòns,
t’un cìt un quatri pèssis za crepadis
e i pîs duç macolâs di zopedons.

Po o soi fermât a bevi te fontana
che nàs jù pel bôsc, a mieza riba;
lis mans te aguta frescia e consolava:
mi soi slapagnât dut ta che aga viva.

A giàt o soi lât su par un molèc
a viodi un nît tiessût fra doi ramàs,
o ai ròt i pantalons, ciapâs tun stèc,
e me mâri po’ mi a dâs doi boins patàs. 

Mi soi pognèt te arba, sot di un pin,
cul ciâf poât tes mans e un frôs in bocia
scoltant, cui vôi siarâs, un gardelin
zornà cun tant amôr la so filastrocia.

Po’ el era vegnût frêt, el neveava,
i frùss duç vuluzâs, par no glazâsi.
La buera via pes mons e businava
e i zovins su la plaza a balonâsi.

Mi soi vidût cu la sacocia in spala
co levi svelt a scuela par imparà.
L’âga tel fossâl e âra glazada
e o soi fermât un lamp a sghlicià.

Un vecio el ciaminava sul ôr de strada
soflant tei sgrìss, cul nâs paoanaz di frêt.
Un frùt sot un puàrtin el fricava
che al veva ròt el vêri del asêt.

La gnot dungia al fùc, ce ben che o stevi
sintât sul ciadreòn a sprecolà,
e intant che lis ciastinis si cuèevin
me mâri e deva al pizul di tetà.

El zòc sul fogolâr el sclopetava,
si viodevin lis faliscis a svolà,
riunida la famea tôr de flama:
di fûr la giîs tant che ûl e po cricà.

Di bòt mi soi ciatât sun t’una riba
che leva su pe mont come un madràc.
Ce bon odôr di bosc che si nuliva,
o soi rivât lassù content e stràc.

Tel prin no ai capît ben dulà che o ari,
po cun alegria mi soi rendût cont
di sedi capitât t’un grant Santuâri,
parsora Cividât, sun t’una mont.

O soi lât su plancùt pe scialinada
mi soi genoglât bessôl tel scûr.
A colp la glesia si è duta illuminada:
dut spaurît, o devi sciampà fûr.

O devi sciampà fûr, ma lis giambis
no rispuindevin plui ai miei comàns,
i lusôrs e balinavin come girandulis
e rifletevin mîl colôrs in te mês mans.

Lassù po, tôr de statua de Madona,
si è formât di lûs come un biel ârc,
fasìnt cui siei colôrs una corona
plui biela del cercli di S. Mârc.

E lì che una vôs dolza di parsôra
mi à fat tramà dut cuant e ciolt el flât
Nissun ti fâs del mâl, no sta vè pôra
el è un piès che ti spietavi: ben tornât!

Si uliva un bon odôr, profun di rôsa,
o sintivi in tel gnò cûr una gran pâs,
po’ mi à dita che vôs dolza e misteriosa:
“Vè Fede, che tu tornarâs”. 

O soi lât fûr di gnûf su la splanada.
o vedevi laiù abàs el gno Friûl;
una lagrima pe mûsa mi colava
o ai viârs i bras par stringilu sul cûr.

Ce beleza! Di lassù la Furlania
si piardeva fin t’el mâr laiù disòt,
o sintivi che o sclopavi li ligria
e cun lagrimis tei vôi... mi soi dismòt.

STANOTTE HO FATTO UN SOGNO

Stanotte ho fatto un sogno. Mi sembrava di essere tornato bambino, nel mio paese. Camminavo felice fischiando sulla strada e stavo giocando a pallone con i miei amici. - Mi sono visto scalzo per quelle contrade, con una rete lungo il Natisone, con quattro pesci morti nel pentolino e i piedi doloranti per i pestoni. - Poi mi sono fermato a bere nella fontanella che nasce a mezza riva, lungo il sentiero del bosco; era piacevole tenere le mani sotto quel zampillo fresco e mi sono tutto bagnato in quell’acqua viva. - Come un gatto mi sono arrampicato su di un salice per vedere un nido intrecciato tra i rami, ho anche strappato i pantaloni, impigliati da un stecco, e mia madre poi mi ha scullacciato. - Mi sono poi disteso sull’erba, sotto un pino, con la testa appoggiata sulle mani e un fuscello in bocca, ascoltando con gli occhi chiusi un cardellino gorgheggiare con tanto amore la sua filastrocca. - Poi era arrivato il freddo, stava nevicando, i bambini erano tutti infagottati in abiti pesanti, per non gelare. Dai monti la bora fischiava forte e i giovani in piazza si lanciavano palle di neve. - Mi sono visto con la cartella in spalla che correvo svelto a scuola per imparare. L’acqua nel fosso era ghiacciata e mi sono fermato un momento a scivolare sopra. - Un vecchio camminava al margine della strada, soffiando sulle magre dita, con il naso paonazzo dal freddo. Un bambino sotto un portico piagnucolava, perchè aveva rotto la bottiglia dell’aceto. - La notte vicino al fuoco, come stavo bene seduto sul seggiolone a sgranare pannocchie, mentre le castagne si cuocevano e mia madre allattava il piccolo. - Il ceppo sul focolare schioppettava, si vedevano volare le faville, la famiglia era riunita attorno alla fiamma: fuori poteva ghiacciare quanto voleva! - Ad un tratto mi sono ritrovato su di una salita, che andava tortuosa su di un monte. Si sentiva un buon profumo di bosco e sono arrivato lassù felice e stanco. - Dapprima non capivo bene dove mi trovavo, poi con gioia mi sono reso conto di essere giunto in un grande Santuario, sopra Cividale, su di una montagna. - Lentamente ho salito la scalinata, mi sono inginocchiato da solo nel buio. Improvvisamente la chiesa si è tutta illuminata, io spaventato volevo scappare fuori. - Cercavo di fuggire, ma le gambe non mi ubbidivano, c’era tutto uno sfarfallio di luci simili a girandole che riflettevano mille colori nelle mie mani. - Lassù poi, attorno alla statua della Madonna, le luci erano disposte in un bel arco, formando con i colori una corona più bella dell’arcobaleno. - E lì che una dolce voce dall’alto mi ha fatto tremare tutto e mi ha tolto il respiro : "Non temere, nessuno ti fa del male, è molto tempo che ti aspettavo : ben ritornato." - Si sentiva un buon profumo, profumo di rosa, e provavo nel mio cuore una gran pace. Poi quella voce dolce e misteriosa mi ha detto: "Abbi fede, che r i t o r n e r a i". - Sono uscito di nuovo sullo spiazzo. Vedevo laggiù in basso il mio Friuli; una lacrima mi scendeva sul viso; ho aperto le braccia per stringerlo sul cuore. - Che bellezza! Da lassù la Furlanìa si perdeva fino al mare, là in fondo. Sentivo che scoppiavo di felicità e con le lacrime agli occhi... mi sono svegliato. - 


1996 - Renato Galliussi con Bruno Badino sulle Alpi della Carnia. 
Da oltre 40 anni Renato non vedeva la neve


1996 - Otello Silvestri recita una sua composizione in occasione della consegna 
a Renato di una fisarmonica, dono dei suoi amici di Orsaria.


1998 - Renato Galliussi con il Presidente della Società Friulana locale, 
mentre intrattengono gli ascoltatori friulani di una stazione radio.