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Cattedrale di Udine, 18 Marzo 2007

L'Arcidiocesi di Udine in festa per i 50 anni di sacerdozio di
S.E. Mons. Pietro Brollo

L’ARCIVESCOVO DI UDINE FESTEGGIA 50 ANNI DI SACERDOZIO
SOLENNE CELEBRAZIONE IN CATTEDRALE

     CHIESA UDINESE in festa per il giubileo sacerdotale dell’arcivescovo mons. Pietro Brollo. Domenica 18 marzo, sacerdoti, religiosi, suore e fedeli laici si sono ritrovati in cattedrale per elevare a Dio un solenne ringraziamento per i 50 anni di impegno sacerdotale del loro pastore. E' stato stesso mons. Brollo a presiedere una solenne S. Messa, concelebrata dall’arcivescovo emerito mons. Alfredo Battisti, dai vescovi oriundi del Friuli, dai vicari foranei, dai canonici ed da tutti i sacerdoti del clero udinese.
     Mons. Brollo fu ordinato sacerdote nel duomo di Tolmezzo (la città dove nacque il 1° dicembre 1933) il 17 marzo 1957 da mons. Giuseppe Zaffonato, vi ha celebrato la prima S. Messa il 19 marzo seguente. Era entrato nel Seminario di Udine nell’ottobre del ’49, frequentando il liceo classico e la propedeutica. Nel 1953 si era trasferito per proseguire gli studi nel Seminario Romano, dove si è laureato in Teologia presso la Pontificia università Lateranense.
     Insegnante di lettere prima e poi di lingua e letteratura in Seminario, fu preside del ginnasio-liceo «San Bernardino» di Udine, assistente diocesano degli universitari cattolici della Fuci e cappellano festivo a Passons e ai Rizzi. Nel 1972 divenne rettore del Seminario di Udine, fino al 1976 quando mons. Battisti lo nominò parroco di Ampezzo. Il successivo incarico è quello di arciprete di Gemona, il 22 luglio 1981. 
     Quindi la nomina, da parte di Giovanni Paolo II, a vescovo titolare di Zuglio Carnico e ausiliare dell’arcivescovo di Udine il 12 ottobre 1985. L’ordinazione episcopale avvenne il 4 gennaio 1986 nel duomo di Gemona, per la prima volta riaperto al culto dopo la ricostruzione. Oltre al compito di vescovo ausiliare, mons. Brollo svolse anche quello di vicario generale dell’Arcidiocesi di Udine.
     Il 2 gennaio 1996, Giovanni Paolo II lo destinò a vescovo della diocesi di Belluno-Feltre, della quale prese possesso il 3 marzo 1996. Quindi, sempre per volontà di Giovanni Paolo II, il ritorno nell’Arcidiocesi di Udine il 28 ottobre 2000, questa volta come Arcivescovo. L’ingresso fu celebrato in cattedrale il 7 gennaio 2001.



 CAMPANE



 CORTEO D'INGRESSO CON ACCOMPAGNAMENTO D'ORGANO



 CANTO D'INIZIO



 INTRODUZIONE DEL VICARIO GENERALE



 BREVE SALUTO DI MONS. BROLLO



 OMELIA DI S.E. MONS. PIETRO BROLLO



  LETTURE E PREGHIERE


                   
 PATER NOSTER      VIGNÎT A CENE

 

 INTERVENTI FINALI

 MONS. BATTISTI

 I ZOVINS DA GLÈSIE

 SINDACO DI UDINE


 RINGRAZIAMENTI DELL'ARCIVESCOVO



  CANTO PER IL CORTEO FINALE

MONS. PIETRO BROLLO RIPERCORRE LE TAPPE DEL SUO SACERDOZIO
DALLA VOCAZIONE A TOLMEZZO ALLA GUIDA DELLA CHIESA UDINESE

Pescatore per il Signore 

PORTARE GLI UOMINI al Signore. È questo il senso del sacerdozio. È questo il servizio che mons. Pietro Brollo, Arcivescovo di Udine, compie da 50 anni, da quel 17 marzo 1957 in cui è stato ordinato prete nel duomo di Tolmezzo. La frase evangelica «In verbo tuo laxabo rete» (Sulla tua parola getterò la mia rete) è il motto della sua vita. L’ha inserita nel suo stemma episcopale, ma la porta nel cuore fin dall’infanzia. «Ci sono due aspetti: l’essere pescatore di uomini, ma soprattutto il fidarsi della parola del Signore – spiega alla Vita Cattolica, ripercorrendo le tappe del suo ministero –. Il compito per il quale mi stavo preparando cinquant’anni fa e che in qualche modo poi ho cercato di assolvere andava al di là di quello che uno può stimare come propria capacità.  Per questo, fin dall’inizio ho pensato che alla fine c’è sempre il Signore che realizza il suo progetto attraverso di me. Insomma, nonostante la perplessità nell’andare avanti, dovuta alla differenza tra l’ideale che stavo per abbracciare e invece quelle che mi parevano le mie possibilità, alla fin fine mi sono fidato della chiamata del Signore, convinto che in qualche modo il Signore si serviva di me ed operava in me. Di qui una maggiore fiducia in me stesso».

Eccellenza, quando ha sentito la chiamata del Signore? - «È stato in quinta elementare, quando ho dovuto scegliere se fare l’esame di ammissione per le Medie oppure seguire le orme di mio padre, che insegnava nella scuola professionale. Ricordo questa prima battaglia interiore. Avevo un po’ di riluttanza a dire o a manifestare questa vocazione e però cercavo di convincermi. Alla fine sono riuscito a dirlo al cappellano di allora, don Carlo Englaro, e a don Egidio Fant. A quel punto la cosa è scattata e ho ripreso in ritardo la preparazione per gli esami di ammissione alla scuola media. Poi, negli anni medie prima e poi del ginnasio c’è stata un’evoluzione con alti e bassi. Però l’orientamento restava, pur se non così preciso e chiaro. In quarta e quinta ginnasio, al "don Bosco" di Tolmezzo, è sorta la volontà di concretizzare la scelta iniziale di arrivare al sacerdozio. C’era anche l’opzione di andare con i Salesiani, ma ho deciso di entrare nel Seminario arcivescovile di Udine».

Qual è stata la molla che ha fatto scattare la scelta? - «Non so dirlo con precisione. Probabilmente mi vedevo molto più impegnato nella realtà della diocesi. Non sentivo che la mia vocazione fosse fare il religioso». 

Quindi gli anni di studio a Udine. - «L’impatto con il Seminario ha provocato dentro di me un passaggio interessante. Mi immaginavo di trovare ragazzi perfetti, dei "piccoli santi", invece ho trovato giovani come gli altri. Allora c’è stato un lavorìo interiore che mi ha permesso di superare la meraviglia iniziale e trovare in parecchi compagni quello che era un chiaro orientamento di vita. Ciò mi ha portato ad un tipo di adesione molto più matura. Lo studio non mi ha creato mai grossi problemi. E non ho vissuto i traumi che qualcuno ha descritto del Seminario. A Udine ho fatto tre anni di liceo più l’anno di propedeutica». 

Poi l’esperienza a Roma.Com’è stata? - «Quando il rettore mons. Fantini mi ha fatto la proposta del Seminario romano sono rimasto sbalordito. Da un lato ero contento perché c’era l’idealizzazione della facoltà romana. Dall’altra c’era la preoccupazione per la questione economica. Laggiù il Seminario costava un po’ di più e noi eravamo una famiglia con tanti fratelli e solo il papà lavorava. Ma io ho sempre pensato che la chiamata domanda una risposta, a meno di grosse difficoltà. Per cui dovevo rispondere di sì. E così ho fatto e sono partito». 

Ha provato un senso del distacco dalla propria terra? - «Tornavo a casa solo un mese all’anno d’estate. Però i legami col Friuli sono rimasti sempre. Con la famiglia avevo un legame talmente forte, per cui la distanza non ha creato distacchi particolari». 

Il 17 marzo del 1957 l’ordinazione.Come la ricorda? - «Più impegnativo per me, dal punto di vista spirituale, era stato il suddiaconato un anno prima, quando avevo assunto tutti gli impegni propri del presbitero. Comunque, il momento dell’ordinazione, nel duomo di Tolmezzo da parte di mons. Giuseppe Zaffonato è stato molto forte. Nonostante l’ora, le 5.30 del mattino a causa della visita pastorale dell’Arcivescovo, la tonalità spirituale era molto elevata. Anche la prima messa, il giorno di S. Giuseppe, è stata un momento particolare di gioia e di festa. Dopo i vespri, ricordo di avere sviluppato il tema del rapporto con il Vangelo della trasfigurazione, dicendo che effettivamente anche l’ordinazione era un momento particolare di gioia: tutti ti sono vicini, ti fanno le felicitazioni, le congratulazioni e bisogna tenere questo tipo di esperienza positiva per i momenti più impegnativi e difficili». 

Il suo primo impegno pastorale è stato quello di insegnante nel Seminario di Castellerio. - «Prima sono tornato a Roma per fare il quinto anno di Teologia e poi, quando sono rientrato, sono stato chiamato a Castellerio. Il numero di allievi era molto significativo. Ho incominciato ad insegnare Lettere in prima media con una classe di 36 alunni. E c’erano tre sezioni: 108 ragazzi». 

Così ha realizzato un sogno che aveva fin dai tempi di Tolmezzo: lavorare con i giovani. - «Sì, e credo di averlo fatto anche abbastanza bene. Mi dicevano che ero abbastanza severo e penso di esserlo stato. Però due cose le ho certamente mantenute: non ho fatto parzialità con nessuno e la severità era sempre in funzione della formazione dei ragazzi. Inoltre in questo periodo facevo il servizio di cappellano festivo: ho incominciato a Turrida di Sedegliano per passare subito a Passons. Dopo cinque anni sono andato ai Rizzi, dove potevo dare più tempo perché avevo concluso gli studi con la laurea in Teologia. Lì l’impegno pastorale è stato intenso». 

Da giovane sacerdote ha vissuto il Concilio Vaticano II. Quali sono state le scelte che hanno modificato il suo esser prete? - «Io avevo due riferimenti abbastanza significativi che mi aiutavano nella mediazione per la comprensione del nuovo che veniva avanti: uno era dato dal collegio degli insegnanti, sia di Castellerio che di Udine. L’altro era un impegno più diretto non tanto in questo caso con l’azione pastorale che svolgevo ai Rizzi, ma con quella che svolgevo con la Fuci, di cui sono stato vice assistente con mons. De Santa e don Micolini. Mons. De Santa era un sacerdote capace di mediazione. Così il nuovo non è calato in modo traumatico. Mi ricordo mons. Ferino, che era il dogmatico per eccellenza, quindi sembrava la persona rigida, che manifestava la propria gioia nel vedere come il Concilio Vaticano II desse la stura a idee che anche lui in qualche modo coltivava e che magari non poteva dire così apertamente come magari desiderava. Io però non ero impegnato nell’insegnamento della Teologia e questo evidentemente ha un po’ attutito l’impatto con il Concilio Vaticano II. Certo, l’insegnamento che avevo ricevuto a Roma era preconciliare. I dibattiti erano, tutto sommato, un po’ astratti. Il Concilio vissuto qui, in Friuli, mi è sembrato più arricchente». 

Nel 1972 è stato chiamato all’incarico di rettore del Seminario maggiore. - «Prima avevo fatto il preside del Seminario minore ed avevo guidato la parificazione del liceo ginnasio San Bernardino, aperto anche ai laici. Eravamo già oltre il ’68 e cominciavano le contestazioni, anche all’interno del Seminario. Bisognava condurre con pazienza e con calma le varie situazioni, le assemblee. Ce n’erano abbastanza, anche se non come nelle scuole pubbliche. Però c’era la stessa aria, la stessa vivacità. Poi nel ’72 mons. Zaffonato mi ha chiesto di fare il rettore. Sono rimasto stupito per due motivi: primo perché non mi aspettavo una cosa di questo genere;  secondo perché l’arcivescovo aveva fatto una consultazione tra i preti e a me sembrava di non essere un prete conosciuto. Sono stati anni molto, molto difficili. Forse i più difficili dal punto di vista pastorale del mio impegno sacerdotale. Era il periodo in cui il seminario era combattuto da diverse parti: c’erano i tradizionalisti, che dicevano che il Seminario si stava sfasciando perché non esigeva più niente; altri sostenevano che era finita l’era del Seminario come istituzione. E anche all’interno del Seminario stesso c’erano queste due posizioni». 

Probabilmente in quel momento la società risentiva del ’68 ed anche nella comunità diocesana si viveva una sorta di smarrimento. «Certo, in quei periodi si sono sperimentate tante cose: la più eclatante è stata quella dell’alternativa, per cui un certo numero di seminaristi procedeva nella formazione attraverso l’impegno in varie parrocchie, in varie comunità fuori dal Seminario. Altri erano dentro e io mi trovavo molto critico verso alcuni modi, alcuni percorsi che si facevano: mi sembrava che questo sistema non consentisse una formazione sufficientemente valida, tanto è vero che ad un certo punto mi sono sentito in difficoltà ed ho detto al vescovo: "Se crede che io sia troppo rigido, vado volentieri in pastorale perché mi sento fatto per questo". E così sono andato in pastorale». 

Dove? - «C’erano due parrocchie libere: Buttrio e Ampezzo. Ho detto al vescovo: desidero essere un "mandato", e lui mi ha destinato ad Ampezzo. Io sono stato contento perché lavorare nella mia Carnia mi gratificava, e poi mi sentivo in sintonia con la gente. È stato indubbiamente un periodo molto bello, favorito anche dal fatto che dopo il primo anno sono venuti da me due seminaristi ora sacerdoti: mons. Pietro Piller e don Marco Visintini. Abbiamo lavorato tanto con i giovani. Poi mons. Battisti mi ha chiamato chiedendomi di andare a Gemona. Un’altra chiamata difficile, tanto è vero che io ho cercato di opporre tutto il possibile per non lasciare l’esperienza con i giovani. Ma quando il vescovo mi ha chiesto di andare ugualmente, ai ragazzi di Ampezzo ho detto: prima la mia decisione era rimanere qui con voi, adesso la mia volontà è di andare. Voi sapete bene che non è mancanza di amore e di affetto verso di voi ma perché credo che la volontà di Dio passi attraverso il superiore che mi chiede questo servizio». «Apprestandomi ad andare a Gemona non mi sono preoccupato né di dove andare ad abitare né di come organizzare la vita familiare. Arrivando in una comunità che annoverava circa 400 morti e non avendo vissuto con essa la tragedia, mi domandavo se sarei riuscito ad essere punto di riferimento ed anima per questa gente. La grazia di Dio mi ha aiutato e ci siamo trovati in ottima sintonia. Una intuizione iniziale è stata vincente. Nel primo incontro con il cappellano don Angelo Fabris, mi sono ricordato del grande prefabbricato a Salcons e gli ho detto: "Ma non potremmo fare in questo luogo il punto di riferimento della parrocchia?". Così abbiamo attrezzato il prefabbricato ponendo dentro parecchi simboli del Duomo. Da lì poi è venuto tutto l’impegno pastorale che consisteva nel ricostruire un po’ i quadri che il terremoto aveva  scompaginato. E sono rimasto meravigliato dall’enorme disponibilità di quella gente, ad esempio quando rimettevo in piedi il gruppo dei catechisti. Abbiamo creato un grosso gruppo di collaboratori che ci sono ancora. È stato un momento molto bello». 

Il terremoto del 1976 è stato uno spartiacque. Come ha vissuto quei tempi? - «Il salto c’è stato. In maniera molto evidente sotto l’aspetto economico: il Friuli è cresciuto. Però non so quanto il fenomeno sia imputabile al terremoto e quanto al veloce cambiamento di mentalità che anche nel resto dell’Italia e del mondo stava avvenendo. E il maggiore benessere diffondendosi rendeva più difficile la vita ecclesiale. A Gemona la ricostruzione aveva reso molto attiva la popolazione. Quando ho dovuto partire, la comunità stava tornando nelle case ricostruite. E mi sono chiesto cosa si potesse fare perché la gente non si "sedesse in poltrona", non si adagiasse in un borghesismo eccessivo. La ricerca della risposta mi ha visto impegnato non più a Gemona, ma a Udine come vescovo ausiliare». 

Nel 1985 viene eletto vescovo ausiliare e mons. Battisti le affida anche l’incarico di vicario generale dell’Arcidiocesi. - «E anche quella volta ho vissuto un grosso distacco. Il giorno della consacrazione episcopale, il 4 gennaio 1986, è stato molto intenso: eravamo verso la fine della ricostruzione, si rientrava nel duomo appena rimesso a nuovo. C’era un insieme di fattori e di motivi che hanno dato a questo momento una carica che credo sia unica, sentita sia da me che dalla gente della comunità di Gemona». 

Come ricorda i 5 anni da primo collaboratore di mons.Battisti? - «Nella prima parte c’era il grande impegno per la conclusione del Sinodo diocesano. Questo era il motivo per cui il vescovo mi aveva voluto. Poi mi hanno occupato di più il compito di vicario generale e l’amministrazione della Cresima. Per me è stata l’occasione per una conoscenza molto più capillare di tutta la realtà diocesana. Ciò mi ha permesso di conoscere i sacerdoti ed anche le comunità. Queste visite diventavano abbastanza significative ed importanti». 

È stato anche questo un periodo di forte cambiamento per la nostra Chiesa locale: accorpamento di parrocchie, foranie, ridistribuzione del clero. - on era ancora molto accentuata la carenza dei sacerdoti, però la necessaria ristrutturazione ha portato ad un notevole cambiamento. Da un periodo di contrapposizione tra le diverse anime nella nostra Arcidiocesi, non sempre riconducibili a unità, si è passati a porre l’accento sulla grossa difficoltà della nostra Chiesa in termini di servizio pastorale». 

Nel 1996 il Santo Padre la chiama a guidare la Diocesi di Belluno. - «Anche quella chiamata è stata inaspettata. Pensavo di essere tranquillo a Udine almeno fino a quando ci fosse stato mons. Battisti. Per me è stato il passaggio alla responsabilità diretta di una Chiesa locale, un impegno molto coinvolgente».  

Quando partiva per Belluno, c’era la sensazione di vederla tornare... - «No, io questo non lo pensavo. E nel 2000 non erano neanche cinque anni che ero a Belluno. Oramai l’età andava avanti, stavo dando gli ultimi anni dell’attività pastorale e forse la Diocesi di Udine poteva avere bisogno di qualcosa di diverso. Quando la nomina è arrivata qualcuno mi diceva: almeno lei conosce la realtà; e io rispondevo: proprio perché la conosco, le difficoltà mi preoccupano parecchio». 

Però i friulani sono contenti di avere un vescovo friulano. - «Con la gente qui mi trovo bene. Quando vado a cresimare c’è un dialogo molto bello. Nel governo dell’Arcidiocesi mi sono assunto in prima persona le decisioni che è giusto che un Vescovo prenda. Anche questo alle volte scontenta qualcuno». 

Il suo ministero a Udine è all’insegna della pastorale di comunione. - «Già prima di andar via da Udine, con mons. Lucio Soravito, avevamo gettato le prime basi di questa pastorale di comunione. Poi a Belluno avevo già incominciato a impostare questa linea. Quando sono tornato ho continuato. Del resto non vedo altre strade se non questa. Credo ancora fermamente che se qualche cosa di importante posso eventualmente lasciare sia questo stimolo affinché il cammino di comunione vada avanti». 

Il passaggio dei laici dalla collaborazione alla corresponsabilità richiede un salto culturale... - «Certo, a questo credo e per questo mi sono impegnato a lavorare. È un lavoro che domanda tempo, pazienza, attesa: è iniziato, ma non concluso». 

Eccellenza, lei si illumina quando parla delle cresime e dei ragazzi. È un ritornare all’origine della sua vocazione? - «Non ho tenuto il conto di quante cresime ho fatto, però posso dire che non mi capita mai di fare una celebrazione di una cresima di routine, perché l’impatto con i ragazzi automaticamente mi dà un risonanza che non mi lascia mai indifferente». 

Da sacerdote che ha raggiunto il giubileo del cinquantesimo, cosa dice ai giovani che si stanno preparando al presbiterato e a quelli che stanno maturando una scelta vocazionale?  - «Per me una delle constatazioni maggiori è stata scoprire la rivelazione Cristo e del volto misericordioso del Padre, perché la vita si muove in forza dell’amore. L’uomo ha bisogno di essere amato e l’amore di Dio è più forte dei nostri limiti, delle nostre mancanze. A noi compete riuscire a venir fuori da noi stessi, sulla strada dell’amore non sulla strada della paura. Se tu ti senti veramente amato da Dio fino in fondo, allora puoi fare degnamente il pastore nei confronti degli altri. L’amore non può che essere il primo metodo di impegno nell’apostolato, evitando certi irrigidimenti che anche taluni sacerdoti a volte hanno. Ai giovani che si preparano dico: fatelo però con piena sincerità, non vivete mai con la maschera perché questo vi distrugge. E la stessa cosa dico a tutti i giovani, affinché siano capaci di fare un po’ di silenzio per entrare dentro se stessi, di interrogare la propria vita per sapere di cosa hanno bisogno». 

Come ha visto cambiare la società friulana in questo mezzo secolo? - «Ci sono stati i cambiamenti drammaticamente vissuti un po’ da tutta la società contemporanea. Il Friuli ha acquisito tanti valori e tanti, purtroppo, ne ha distrutti. Dal terremoto in poi c’è stata una presa di coscienza maggiore di quello che è la nostra identità. E credo che scoprire le radici di fondo sia una valore molto significativo. L’importante è che non ci si fermi a posizioni più o meno folcloristiche, ma che effettivamente si vada alle radici delle cose. Noi, quand’eravamo ragazzi, non avevamo chiaro il problema della lingua friulana. C’era la vita cristiana e c’era anche il friulano. C’era una realtà di valori che era mediata dalla cultura friulana. Dire "par amôr di Diu" non era solo una battuta, come adesso: c’era dentro una valenza, una pregnanza. L’importante è che attraverso questi segni che ti creano un rapporto di familiarità maggiore, si possa veicolare anche i valori, che passano più per via affettiva che intellettuale. Per questo, ad esempio, anche il fatto di potersi sentire insieme friulani con friulani dovrebbe aiutare proprio per via affettiva a recuperare i valori autentici della nostra identità. Questo è il valore ultimo della lingua friulana». 

Parafrasando un famoso motto catalano,possiamo anche dire il Friuli o sarà cristiano o non sarà? - «Certo, cosa resta altrimenti? Un po’ di folclore, non la sostanza. L’aspetto positivo per me di essere friulano in Friuli è che le persone che incontro sentono di essere capite e di capire. Così il dialogo può avvenire in maniera molto più familiare. E la familiarità è l’ambiente attraverso il quale può passare più facilmente un certo valore». 

Naturalmente bisogna rifuggire anche il pessimismo che dilaga... - «Molto. Sono convinto che questa è una fase enorme di crescita. Stiamo passando da una adolescenza umana ad una ricerca faticosa di maturità, laddove tutte le scelte devono essere sempre di più consapevoli. Facendo delle Cresime a Lignano con un gruppo di giovani adulti emergeva la domanda sul perché non facciamo fare a tutti il cammino di Cresima a questa età in cui uno può esserne più consapevole. Credo che questo sia lo spiraglio di sereno che si vede nell’oscurità delle attuali nubi».

A CURA DI EZIO GOSGNACH -  (HANNO COLLABORATO STEFANO DAMIANI E MARGHERITA GRECO)
(LA VITA CATTOLICA - SABATO 17 MARZO 2007)